Sergio Baraldi
Una riflessione sul senso del giornalismo stimolata dal nostro recente articolo sulle 5M, da FERPI proposte anche per le relazioni pubbliche, a firma del noto giornalista, per molti anni direttore di molti quotidiani locali del Gruppo L'Espresso, già speaker di InspiringPR.
Che cos’è il giornalismo? La domanda è semplice, ma la risposta è complessa. Per il professore Mark Deuze, uno dei maggiori studiosi del settore, il giornalismo ritiene di avere un rapporto esclusivo con la società. Un ruolo che difende attraverso un’ideologia professionale.
La produzione di informazioni diventa giornalismo attraverso il suo contributo autonomo, che ha come punto di riferimento il bene comune. Descritto così, il giornalismo sarebbe un insieme di valori, come la ricerca di verità, l’essere un servizio pubblico connesso a una pratica che afferma la propria competenza a informare e a produrre un sapere per la società. In questo modo attribuisce a se stesso una funzione sociale decisiva.
I giornalisti considerano il sistema valoriale un modello vincolante, al punto che in genere si sentono prima dei professionisti e dopo appartenenti all’organizzazione mediatica per la quale lavorano. L’ideologia del giornalismo è da sempre costruita su alcuni concetti: l’orientamento al servizio pubblico, l’autonomia, l’obiettività (nel mondo anglosassone), il rispetto di principi etici, l’immediatezza.
A queste categorie si aggiunge il controllo del prodotto, perché dovrebbe rispecchiare le indicazioni normative della professione. L’ideologia definisce il giornalismo, nello stesso tempo lo distingue come professione. Di recente, in un interessante articolo pubblicato da FERPI, la collega Federica Zar ha rilanciato la proposta elaborata dall’Ucsi (Unione stampa cattolica italiana) per un giornalismo responsabile. L’idea è di andare oltre l’ideologia tradizionale, sintetizzata dalle classiche 5W del giornalismo (chi cosa dove quando perché) e affiancare 5M, dall’inglese “more”, cioè più domande e fonti, più tempo, più punti di vista e lingue, più tutele legali diritti e libertà, più umanità.
La stampa cattolica ha messo al centro la responsabilità e la credibilità. Si tratta di una proposta che merita un’attenta riflessione. Ed è significativo il fatto che i professionisti di FERPI, che si occupano di relazioni pubbliche e di comunicazione, aprano un dibattito.
Il valore della proposta va ricercato non solo nelle indicazioni operative che offre. In realtà sembra collegarsi a un importante settore di studio sul giornalismo, quello sui confini della professione. Si tratta del boundary work, che si riferisce alla negoziazione dei confini del giornalismo, alle dispute che vertono su cosa sia o non sia e cosa debba fare. La stampa cattolica avanza due importanti affermazioni. Innanzi tutto, sposta lo sguardo da dentro alle redazioni a fuori dalle redazioni.
Le 5M, infatti, esprimono regole intrecciate alle esigenze dei cittadini. Da questa affermazione consegue una seconda, non esplicitata: il giornalismo è considerato una pratica sociale. È una cornice interpretativa che considera il modo in cui gli attori puntano alla conservazione o al cambiamento dei confini del giornalismo. La stampa cattolica propone il cambiamento: allarga i confini, spostandoli in avanti verso il pubblico. Viene così raccolta l’esigenza di superare i precetti della tradizione, che conservano validità, per arricchire la professione con nuovi criteri, nuove norme, nuovi protagonisti.
Non a caso Federica Zar chiede agli associati Ferpi se i giornalisti che si occupano di relazioni pubbliche e di comunicazione non debbano fare propri quei principi per demarcare meglio i confini tra una professione corretta e le sue distorsioni, che finiscono per danneggiare il diritto dei cittadini ad una comunicazione trasparente.
La negoziazione sui confini però non si gioca solo tra i professionisti, ma coinvolge attori fuori dal campo giornalistico. Innanzi tutto il pubblico. Del resto la teoria del boundary work riguarda il lavoro che determina socialmente cosa sia fare giornalismo e comunicazione, come vadano prodotti, chi ne sono gli attori. È in questo contesto che il giornalismo come pratica sociale è luogo di competizione per stabilire limiti, valori, pratiche, prodotti legati alla professionalità, per poi capire chi è incluso e chi escluso.
La stessa storia del cambiamento del giornalismo si può interpretare come un processo di espansione progressiva dei suoi confini, nel quale non mancano resistenze e conflitti. La conclusione coincide con l’accettazione di nuovi valori, di nuove figure, come è avvenuto di recente con le professioni legate al digitale o alla comunicazione. Del resto, si registra sul mercato una perdita di fiducia dei cittadini verso il giornalismo, un declino della sua autorevolezza e credibilità, che ha avuto ricadute economiche sull’editoria. In questo quadro deteriorato, il giornalismo deve legittimarsi come produttore di conoscenza sull’attualità. Nello stesso tempo vuole affermare la propria autonomia, la propria identità, intende proporre i giornalisti come attori sociali investiti di un compito: informare il pubblico su quello che è rilevante, rappresentare i significati sociali.
La crisi del giornalismo, quindi, si può leggere come una crisi di legittimazione. E una ri-legittimazione non può avvenire senza un confronto con le aspettative del pubblico. Del resto nella produzione dell’informazione la percezione che i giornalisti hanno del loro pubblico gioca un ruolo importante. Il giornalismo oggi è guidato da una percezione insufficiente? La rappresentazione del reale, il racconto dell’esperienza sociale, avvengono all’interno di strutture culturali, sociali organizzative nelle quali il giornalismo si muove. Se il contatto con la società, la relazione con il pubblico si sono logorati, diventa difficile giustificare la conoscenza prodotta.
Una seconda questione è il mutamento di scenario innescato dalla tecnologia, dagli algoritmi, dall’intelligenza artificiale. Se la digitalizzazione ha ridefinito le modalità con le quali fare le cose (il “come”) la trasformazione digitale afferisce al “cosa”. Ci interroga su cosa ha senso fare nel nuovo contesto e quali sono le conseguenze sulle relazioni sociali. Agisce cioè sul senso delle cose. Chiama in causa il modo in cui la stessa società si ridefinisce.
Il mutamento sembra caratterizzato da una convergenza di dimensioni diverse, che ci porta all’idea di sistema ibrido, diventata centrale con il libro del professore Andrew Chadwick intitolato The Hybrid Media System (2013). Il sistema e il giornalismo ibrido indicano il contesto in cui sono diventate decisive l’interdipendenza e l’integrazione tra figure professionali, pratiche, logiche culturali, che prima erano separate. Avviene una convergenza strutturale, agevolata (imposta?) dalla tecnologie.
L’ibridazione rispecchia il cambiamento che ha modellato le dinamiche attraverso le quali l’informazione è prodotta e distribuita nelle democrazie contemporanee. Algoritmi, social netwok, intelligenza artificiale, reti hanno costruito un’interdipendenza reciproca tra attori differenti, tra pratiche giornalistiche distanti, tra format comunicativi diversi, tra narrazioni basate su fatti e su finzioni, tra notizie e intrattenimento. Basta osservare l’informazione politica che ha straripato dai suoi tradizionali canali informativi.
Connessa a questa trasformazione strutturale c’è una redistribuzione del potere assegnato agli attori in gioco. Tra loro assume sempre più rilevanza l’audience connessa online. In questa trasformazione torna d’attualità la nozione di media logic elaborata da Altheide e Snow, nel loro libro “Media logic” del 1979. Si può definire la media logic come il processo che realizza la traduzione di un fatto in notizia. Oggi prevale il suo significato più ampio: il modo in cui i media costruiscono la realtà, le danno forma, e l’influenza che il contesto sociale ha su questo processo.
Si tratta di procedure ormai instituzionalizzate, che trasformano la realtà complessa in qualcosa di comprensibile per chi ne fruisce. È insieme una routine professionale, uno schema interpretativo, un’interazione sociale. C’è però da chiedersi se la costruzione sociale dell’informazione non finisca per rappresentare una gerarchia politica, economica, sociale rivolta allo status quo. Non sempre viene dato spazio a voci, credenze, posizioni che possono arricchire il confronto.
Il problema sta nel fatto che la produzione dell’informazione (come il giornalismo seleziona, organizza, realizza e rappresenta il contenuto) dovrebbe essere allineata al contesto sociale complesso di oggi. Ma i mutamenti socioeconomici, politici, tecnologici, stanno cambiando quel contesto: i generi si mescolano, i valori e le norme professionali si contaminano, le forme organizzative sono in revisione, le tecnologie sono usate in modi differenti.
C’è interdipendenza, ma c’è anche competizione, perché oltre ai media sono scesi in campo tanti altri attori che co-creano la comunicazione. Agiamo nel nuovo panorama della disintermediazione. La stessa logica dei media è sfidata a cambiare. L’utilizzo del giornalismo dei dati, le esperienze di computational journalism, i social network, mostrano un intreccio tra logiche differenti. Basta pensare all’incontro tra giornalisti e programmatori o social media manager. Cambia la cultura e quella open source è più fondata sulla condivisione. Cambiano i codici, che sembrano lontani rispetto al giornalismo novecentesco.
Il giornalismo non ha la velocità di cambiare che investe la società che rappresenta. A premere sono sconvolgimenti politici, economici, sociali recenti, che ripropongono il legame del giornalismo con la democrazia, con i diritti, con la libertà. Ma in quale forma? Assistiamo alla messa in discussione della stessa modernità occidentale un tempo modello vincente, fondato sulla interrelazione tra liberal-democrazia e stato sociale.
In questo mondo ibrido, sembra porsi la domanda sul senso che ha il giornalismo. Si è smarrita la prospettiva coerente, unitaria di ieri, si deve costruire una nuovo significato della modernità, all’interno di una diversa storicità, vale a dire di una diversa visione del passato e del presente che possa ispirare. S’impone un nuovo modo di guardare le cose che accadono.
Al giornalismo forse occorre una forza innovativa che renda meglio conto del processo di ibridazione, di frammentazione, di rischio sociale. La proposta della stampa cattolica e il dibattito aperto da FERPI sono un buon segno. Le sfide del tempo storico che viviamo richiedono la partecipazione di tutti per delineare il senso del giornalismo.