Santina Giannone
Perché le relazioni pubbliche devono confrontarsi con le percezioni per costruire mondi? Un salto all’interno della nostra natura di esseri umani per riflettere qualche momento sulla necessità di valorizzare e guidare le percezioni nel costruire piani di reputazione e comunicazione integrata.
Ciò che accade fuori dalla nostra testa non è la realtà. La realtà è quello che accade attorno a noi, viene processato dai nostri sensi. Diventa realtà quando noi gli attribuiamo un senso.
Basterebbe incontrare questa affermazione nel proprio percorso di relatore pubblico per voler approfondire il tema della “percezione”, che è alla base di ogni lettura del mondo e, dunque, di ogni possibilità di interagire con esso. Gli schemi sul funzionamento della comunicazione, del resto, si basano su una semplificazione (a volte eccessiva) di come funzionano i nostri sensi.
Siamo un imbuto ricettivo, che riesce a cogliere solo alcuni aspetti fisici che, incanalati nei nostri sensi, diventano poi stimoli, percezioni e a seguire dati, informazioni.
Un percorso complesso per esseri che si evolvono per essere alla ricerca del significato, in una realtà che ci mette costantemente a contatto con la necessità di riconoscere che il senso…non c’è, ma nasce da una nostra attribuzione.
E allora, prima di ogni piano strategico, prima di ogni analisi, studio, approfondimento, un salto all’interno della nostra natura di esseri umani per riflettere qualche momento sulla necessità di valorizzare e guidare le percezioni nel costruire piani di reputazione e comunicazione integrata.
Tra noi e il mondo, dunque, c’è uno spesso filtro, formato dalle nostre percezioni.
Potremmo immaginare le percezioni come una relazione: quella tra lo stimolo esterno e il risultato che produce nel nostro schema neurale.
Niente di algebrico, anzi: ogni percezione è il risultato di una combinazione di limiti perché è vincolata ai sensi utilizzati per produrre le informazioni e allo schema neurale che le analizza.
Il mondo possiede una sua oggettività, ma ci riguarda solo in parte, perché noi la vediamo e comprendiamo solo parzialmente. Il nostro cervello non si è evoluto per cercare la verità, ma per affermare la propria verità.
Non potrebbe essere altrimenti visto che la nostra mente ci dà l’impressione che le nostre percezioni sono reali, eppure queste sono costruite con dei sistemi sensoriali che non ci danno accesso completo agli stimoli del mondo.
Pensiamo che la nostra idea di mondo passi anzitutto dalla vista.
In realtà solo il 10% delle informazioni che il nostro cervello utilizza deriva dagli occhi. Il restante novanta per cento deriva da altre regioni del cervello e in particolare dalle connessioni cerebrali che esse hanno stabilito.
Crediamo di effettuare le nostre scelte sulla base di quello che sappiamo, ma in realtà siamo condizionati da una storia evolutiva molto più ampia. La maggior parte delle scelte positive (ovvero favorevoli alla sopravvivenza) fatte dai nostri avi nel corso dell’evoluzione, sono ancora ben presenti in noi: il nostro cervello è anche l’incarnazione fisica degli automatismi che i nostri antenati hanno accumulato nelle loro vite. Allo stesso tempo le nostre esperienze ci fanno accumulare dei dati profondamente personali, che si combinano in schemi unici per ogni persona.
La percezione, tuttavia, non è fine a sè stessa, non è un atto contemplativo; ci siamo evoluti per percepire allo scopo di sopravvivere, il che significa che le percezioni sono la base su cui si innestano scelte, decisioni e azioni.
Dunque passiamo la vita a reagire a informazioni parziali, analizzate e filtrate secondo schemi spesso molto antichi, su cui si sono innestate esperienze parziali e personali.
Detta così la vita umana sembra una lunghissima partita di mosca cieca; le relazioni sono quei momenti casuali in cui ci scontriamo mentre brancoliamo alla ricerca di punti di riferimento.
Del resto non potrebbe essere molto diverso, visto che elaboriamo continuamente informazioni ambigue. Il nostro cervello, tra una serie di risposte possibili, ne sceglie una sola.
Le relazioni nascono spesso sotto la spinta della proiezione dei significati che elaboriamo in questo percorso.
Sembra una catastrofe in un mondo destinato al caos e alla casualità eppure…
La tesi di alcuni scienziati è che accettare il fatto che la realtà che vediamo non è oggettiva, non è necessariamente un fatto negativo. La possibilità di attribuire significato alle esperienze che viviamo implica anche la possibilità di modificare il significato delle cose che abbiamo vissuto.
Particolarmente affascinante la teoria del neuroscienziato Beau Lotto che in “Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo” dichiara che è possibile “costruire un nuovo passato per il futuro”.
Una visione ardita (e impegnativa, per chi vuole provare a realizzarla) che però mette davvero al centro la persona con le sue potenzialità. Senza alibi e con qualche pretesa.
Tutto si basa su come vogliamo e riusciamo a maneggiare “gli assunti”, ovvero le idee base che si sono consolidate in certezza nella nostra esperienza.
«L’interazione degli assunti nel nostro cervello e nel nostro processo creativo è ciò che definiamo gerarchia incorporata. (...) Più un assunto è basilare e più il suo cambiamento può influenzare il resto del sistema, dato che la gerarchia poggia le sue fondamenta su esso. Quindi, la domanda giusta - per quanto piccola- può indurre al cambiamento (si spera in meglio, ma non è sempre così) una persona, un’invenzione, un’idea, un’istituzione o anche un’intera cultura».
I cambiamenti in grado di sovvertire i sistemi nascono da piccole domande che sono in grado di fare emergere aree di incertezza tanto affascinanti da portarci, come dice lo scienziato, a celebrare il dubbio.
«Il punto cruciale è distogliere lo sguardo dai significati che un tempo abbiamo stratificato sugli stimoli. Fermare con consapevolezza le nostre risposte riflessive, come si è in grado di fare quando si riesce a vedere la causa di un automatismo».
Così nascono le deviazioni, capaci di cambiare il mondo (e la nostra realtà).
Per chi maneggia comunicazione e relazioni, una grande lezione:«La barriera che ci impedisce di accettare la piena umanità dell’altro è spesso una mancanza di consapevolezza della nostra stessa umanità, a causa della nostra impressione dominante di vedere, sentire, conoscere il mondo come realmente è».
E dunque, la deviazione comincia così. Buon percorso.
«Abbracciare l’incertezza al fine di innovare è possibile, anzi, è essenziale. sentirsi scomodi per provare altre sensazioni disagevoli sono di fatto condizioni auspicabili. Sono luoghi in cui indugiare e lasciare che le percezioni li esplorino, come un affollato mercato straniero con venditori che gridano frasi in una lingua incomprensibile. Se troviamo il coraggio di celebrare il dubbio a sufficienza da poter dire “Bene, non lo so”, di colpo gli assi perimetrali che vincolano il nostro spazio del possibile vengono meno, lasciandoci liberi di costruire da zero uno spazio del tutto inedito, pieno di nuove idee».