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Quel ramo del lago di Bled

16/10/2019

Francesco Rotolo

Una dettagliata analisi di BledCom 2019 che apre un ponte verso l'edizione 2020. Il racconto di uno dei protagonisti, Francesco Rotolo.

Sulle rive del lago di Bled, in Slovenia, il 3 luglio 2020 si terrà la ventisettesima edizione del Bledcom Symposium, dal tema: “The impact of public relations on organizations and society”. Un argomento particolare, anzi un “meta-argomento”, come accade quando una disciplina si ferma a riflettere su sé stessa, sul proprio perimetro d’azione e sul senso profondo della sua deontologia. Quelle che seguono sono alcune riflessioni, alcuni tardivi “appunti di viaggio”, idealmente in coda a quelli già condivisi dagli altri colleghi, scaturiti dalla partecipazione all’Edizione di Bledcom 2019, come membro della Delegazione Ferpi Lazio, guidata da Toni Muzi Falconi; una ri-flessione sui temi di quest’anno, in vista del dibattito che si è aperto alla fine della trascorsa edizione e che segnerà il 2020.

1. Crisis. È il momento del “sacrificio”

Due sono i momenti in cui ci fermiamo a riflettere su noi stessi e sul nostro agire: quando si esaurisce per qualche ragione lo “slancio vitale” che supporta le nostre azioni, o quando il contesto in cui operiamo subisce una tale accelerazione nella velocità dei cambiamenti, da lasciarci disorientati. Sia nel primo caso, che potremmo definire “endogeno”, sia nel secondo, quello “esogeno”, utilizziamo in genere la medesima parola per definire quello che ci sta accadendo: una crisi.

Da decenni ormai si abusa impropriamente di questa parola, sono stati versati fiumi di inchiostro per comprendere e delimitare le varie “crisi” che hanno attraversato e stanno attraversando la società contemporanea. Nonostante questo logorio semantico, la parola “crisi” continua ad avere una sconcertante aderenza etimologica alla natura di questi momenti: essa deriva dal greco krisis, che sta per “scelta”, “decisione”, ma anche “fase decisiva di una malattia”: dovremmo forse domandarci di quale “malattia” è stata contagiata la professione del comunicatore?

Affondare le mani nelle etimologie è come operare una stratigrafia archeologica: si scava una “carota” attraverso gli “strati” o le ere della semiosi, cioè nel cuore delle culture, fino a risalire a significati ancora più antichi e profondi di cui quasi sempre abbiamo perso la memoria: la parola κρίσις ad esempio deriva a sua volta dal verbo κρίνω (krinō, “distinguere”, “giudicare”), che originariamente indicava l’atto del tagliare e, in particolare, l’atto sacrale di dividere i quarti dell’animale da sacrificare al dio durante il rito. Da qui riportiamo almeno due punti interessanti: innanzitutto una “crisi” è in primis un’azione, non (solo) la situazione che la determina; un’azione rituale, sacra, che richiede impegno, pianificazione, attenzione, addirittura devozione. Già questa considerazione basterebbe a rileggere in senso critico un certo atteggiamento auto-apologetico che caratterizza in particolar modo il nostro paese almeno dalla fine della Prima Repubblica. Quante volte ci siamo ripetuti “è colpa della crisi”? Ed ecco che arriviamo al secondo punto, e cioè che questa “azione sacra” implica la capacità di sapere dividere e quindi “tagliare via” ciò che non ha valore rispetto a ciò che “va sacrificato”, ciò che è davvero importante e va quindi destinato al dio. Questa azione cruciale, apicale, richiede capacità di pensiero critico.

E qui davvero la nostra “stratigrafia etimologica” diventa preziosa, perché ci ricorda che crìtico è un aggettivo che, sempre per mediazione latina, deriva dal greco κριτικός «atto a giudicare, decisivo», già usato nell’antichità ellenica come sostantivo maschile con la valenza di «giudice, critico»: fin qui nulla di strano, in una continuità in fondo rassicurante con la nostra cultura, se non fosse che anche la parola criticόs derivi dal verbo krinō! Dunque, il “senso critico” non riguarda soltanto la facoltà intellettiva di esaminare e giudicare, come vorrebbe la cultura giuridica occidentale dalle poleis sino ai nostri giorni: c’è un fondo più antico, più crudo e netto, che rimanda ad un atto divisorio, irreversibile, ma necessario. Il pensiero critico “taglia” via ciò che è superfluo, di scarso valore, per potere offrire all’altare del vero le “parti migliori”. Non ha senso continuare a dire di “essere in crisi”: la crisi autentica è il prodotto di un cambiamento di cui si prende atto, che si affronta in maniera attiva, coraggiosa, con un sacrificio.

Credo allora che il tema scelto per la prossima edizione del Bledcom Symposium sia tanto più azzeccato, quanto più appare oggi profonda la crisi attraversata dalla nostra categoria professionale. Una crisi lunga, accidiosa – non solo in Italia!, che può sembrare esogena, e invece affonda forse le sue radici nelle fondamenta stessa di questo lavoro, minandone credibilità e portata strategica. Casi come il recente scandalo di Bell Pottinger, nel Regno Unito, non aiutano certo a migliorare la situazione, quasi ad alimentare quel clima di sfiducia che si è venuto a creare intorno ad una professione mai davvero compresa fino in fondo dalle cittadinanze – e che la rende per questo ancor meno amata. A complicare ulteriormente un quadro già critico ci pensano poi i nuovi “influencer” della rete. Si rassegnino i nostalgici ancora alla ricerca di modelli simmetrici di grunigiana memoria: che ci piaccia o meno PewDiePie genera più traffico in rete di qualunque politico italiano, e probabilmente influenza con i suoi video una fetta più grande di cultura contemporanea di quella di un regista “impegnato” ma di nicchia.
Proviamo allora a capire cosa sia necessario oggi “tagliare” e cosa “tenere” ma soprattutto cosa “sacrificare” sull’altare del futuro della comunicazione professionale, tout court; perché non è affatto detto che questo futuro sia certo.

2. Le PR nel mondo accademico: quale “fotografia” del nostro ruolo?

Durante una delle cene della Delegazione a Bled, accompagnati dalla splendida vista del lago al tramonto, ho sentito l’esigenza di condividere con alcuni dei colleghi presenti una mia perplessità, o meglio una certa “inquietudine”, in relazione al tipo di interventi mediamente presenti nelle varie sessioni del Simposio; inizialmente ho attribuito questa sensazione alla mia appartenenza soggettiva al mondo dei “practicioner”, piuttosto che a quello degli “academics”; nelle settimane successive, tuttavia, continuando a confrontarmi con colleghi non solo italiani, ma anche americani, asiatici, latino-americani, mi sono persuaso che questa percezione non era soltanto il frutto di un bias derivante da un’intrinseca difficoltà di comunicare tra due mondi tutto sommato diversi, quello dell’impresa, del mercato, e quello della ricerca accademica, delle università: c’era qualcosa di più profondo che riguardava tutti noi, come professionisti della comunicazione e delle relazioni. Del resto, questa stessa riflessione è stata poi ripresa e condivisa anche da colleghi anche della controparte accademica, in più di un’occasione.

Per rendere meglio il mio pensiero mi è venuto in mente un parallelo, sinestetico se non improprio, con quanto affermava Roland Barthes in un suo libro memorabile sulla fotografia: “Ogni volta che guardiamo una fotografia ci troviamo di fronte […] lo studium, cioè la realtà sociale, quello che è rappresentato nell’immagine, vestiti, strade [nel caso citato da Barthes, ad esempio alcune vecchie foto di sua madre, il loro contenuto visivo, “letterale”]. Lo studium è il contenuto della foto, gli elementi che la compongono [in un’ottica semiotica potremmo dire il suo “significante”]. Il punctum, ciò che mi coinvolge in una fotografia, la ferita che suscita in me. È il momento in cui l’immagine mi guarda e agisce sulla mia memoria, agisce su di me”. 

Mi sembra una metafora adeguata per raccontare la maggioranza dei contributi presentati al Bledcom Symposium: credo che il loro valore maggiore, come “esperienze di ascolto”, sia in un certo senso anche la consacrazione di un modo di intendere le Relazioni Pubbliche, o almeno il mondo della Ricerca che ruota intorno ad esse. Sorge il dubbio che al fondo non vi sia che un grande e prudente esercizio di studium; autorevole, per carità, ma al punto da essere talvolta autoreferenziale. Le PR appaiano troppo spesso ormai come una grande “macchina da presa” che si sforza di cogliere per l’appunto una fotografia della società contemporanea iper-complessa in cui le “relazioni pubbliche” si muovono. Utile, sicuramente, ma non sufficiente. Dov’è lo “strappo”, dove sta la “ferita” di cui parla Barthes? Siamo ancora capaci, oggi, come comunicatori, di andare al di là dei dati, di cogliere quel dettaglio “diabolico” che sconvolge la quiete solo apparentemente anodina di un’immagine sociale? Abbiamo ancora il coraggio di denunciare il vulnus di una teoria, di una ricostruzione, che permette però di rivelare un senso più profondo, conflittuale, umano? Siamo ancora capaci di guardare alla realtà sociale che sta dietro i modelli, o ci siamo chiusi a riccio come è successo al mondo della compliance? Analizziamo per agire o ci limitiamo ormai a “flaggare” delle voci in una checklist? Siamo davvero “creatori di valore”, o ci siamo talmente tanto arroccati dietro la pretesa di un’algida autorevolezza (autorità?) professionale, da non riuscire più a cogliere la necessità di tornare a saper leggere e collegare ciò che è semplice, ma non facile? Sappiamo ancora riconoscere ciò che è autentico, ma spesso nascosto, ciò che vi è di terribilmente bello nel lavoro del comunicatore, ma spesso imprevedibile, perché insito nelle “cose degli uomini”?

Credo che queste siano alcune delle domande che dobbiamo porci, non solo per “tornare a Bled”, come Italiani e come membri di una Federazione, ma per riflettere su quanto sta accadendo ad un intero comparto; un comparto che, da storyteller disilluso ma non arreso, vedo ancora dibattuto e spartito tra mestieranti e faccendieri, pseudo-guru e nostalgici del periodo d’oro dei “white-collars” americani.

3. Le PR nell’età della tecnica. Quale idea di “valore”

Ha ragione Umberto Galimberti a metterci in guardia contro la supremazia della tecnica, anzi della tecnè, e noi comunicatori di professione non facciamo certo eccezione, anzi: siamo più colpevoli di altre categorie, perché ci siamo resi complici di una gigantesca “rimozione” o, meglio, “traslazione” di potere. Tanto più, allora, un altro punto della passata Edizione del Bledcom mi ha colpito e lasciato disorientato: la quasi totale assenza di ricerche dedicate al ruolo della tecnologia e al suo impatto non solo sulle professioni della comunicazione, ma sulle stesse società complesse in cui queste si trovano ad operare. Non può trattarsi di una svista, né di una aderenza “stretta” al tema di quest’Edizione, incentrata su concetti solo apparentemente “astratti”. Che senso ha continuare a riflettere su Fiducia e Reputazione secondo categorie classiche ormai in parte desuete, quando dobbiamo prendere atto che là fuori, da qualche parte a Palo Alto, un algoritmo inafferrabile è già diventato arbitro e perimetro della nostra sfera di azione e di influenza? Le stesse dinamiche che concorrono oggi alla formazione della Fiducia, attraverso la Reputazione, e viceversa, sono ormai profondamente - anzi strutturalmente - determinate da variabili tecnologiche quasi sempre al di fuori dalla portata del singolo comunicatore o del singolo gruppo di interesse.

Chi fa il nostro lavoro dovrebbe saper bene che la parola comunicazione significa “partecipare” “mettere in comune”, dal latino communicare, da communis «comune»; è interessante ricordare come nel latino ecclesiastico questa parola sarebbe poi diventata per antonomasia un partecipare all’altare, davanti ai fedeli: del resto ancora oggi per i cristiani non sembra esserci comunicazione più vera di quella che aspira a sublimarsi in una comunione. Un altro rito, un’altra azione “sacrale”, come l’atto del dividere nel sacrificio. La “crisi” e la “comunione”, cioè la comunicazione, sembrano avere molto di più in comune di quanto in genere si pensi. Liturgia o meno, questo “partecipare” non è, e non è mai stato, un semplice sinonimo o sostitutivo di “informare”: eppure abbiamo permesso che la regia strategica del nostro agire, e quindi il senso stesso del nostro esistere come categoria professionale, venisse derogato e delegato alla perfezione nuda di un algoritmo, e questo principalmente ancora informa; e non importa se questo non è ancora completamente perfetto, perché ci sta lavorando su… l’algoritmo intendo, sta ormai lavorando da anni, incessantemente, al suo stesso perfezionamento. Il domino della tecnè è stato già sancito, in modo ricorsivo, inedito, anzi addirittura autonomo. Persino i tecnocrati inizieranno a essere sempre meno necessari, con buona pace dei lobbisti di una volta, i quali potevano concorrere a dare una forma al mondo in base a interessi più o meno particolari. Resta da capire se questa sia una cosa buona o meno, o almeno tentare di avanzare una riflessione critica su questo fenomeno: sottovalutarlo o addirittura ignorarlo è invece la via sicura per una definitiva marginalità rispetto ai processi di creazione del valore.

4. La perdita del “limite”

Nel suo libro “L’uomo è antiquato” Günther Anders ci mette in guardia sul rischio del rapporto uomo-macchina: anzi, quest’ultima ha già vinto. La tecnè regola ormai tutti i nostri comportamenti, definisce il perimetro d’azione, delinea gli orizzonti del senso. Eppure, come lo stesso Galimberti ha spiegato molto bene in numerose occasioni, la tecnica “non ha senso”: semplicemente, funziona. Al punto che ha portato anche noi a confondere il senso delle cose con il loro significato. Il Punctum barthesiano con lo Studium.

Continuare a pensare che questo sia ancora soltanto un problema politico significa applicare una volta di più categorie ormai obsolete ad un contesto completamente neo-paradigmatico. Ciò che infatti accomunava fino al secolo scorso tanto il Marxismo quanto il Capitalismo liberista, se pur in modi addirittura opposti, era infatti un’idea di fondo di umanesimo: nel senso proprio di volontà di porre l’uomo al centro, tanto dei processi (economici, sociali, antropologici) quanto delle riflessioni e dei ragionamenti su di essi. Quella volontà era ancora, in fondo, una “filosofia”, un amore per la sapienza intesa come qualcosa che parte dall’uomo e all’umano, inevitabilmente, ritorna; era ancora, se pur attraverso un’iperbole ampissima, la stessa filosofia, la stessa emozione che vibrava in Francesco Petrarca quando riportò alla luce le Epistole di Cicerone; la stessa devozione per le umane cose che animò Marsilio Ficino nel suo lavoro straordinario di tra-duzione in Europa delle opere di Platone, dal greco. Cosa è successo, dopo? Siamo in un’epoca di nuovi galileismi, di nuove iperboli virali? O la fine degli “-ismi” coincide con l’inizio dei “like”? “Datemi una story (su Instagram, ovviamente) e vi influenzerò il mondo…”

Eppure, fino a pochi anni fa, potevamo ancora affermare che non era la tecnica in sé il problema, ma la nostra rinuncia all’impegno, al coraggio, all’azione. La tecnica diventa pericolosa quando da medium nel rapporto tra uomo e natura diventa essa stessa il “contesto”; siamo andati oltre: la tecnè ormai si pone come l’orizzonte assoluto al cui interno sia l’uomo sia la natura possono e devono trovare il senso del loro esistere. E qui, ancora una volta, è l’etimologia a venirci in soccorso: è proprio nella parola assoluto che possiamo ritrovare la radice della nostra alienazione, nel senso proprio dal latino ab-solutus, cio che è sciolto, libero ormai da ogni legame. È in questa prometeica perdita del legame che si inscrive il senso della nostra caduta, come cittadini, prima ancora che come appartenenti ad una categoria professionale. La tecnologia non è il problema, anzi potrebbe essere – è! – l’unica vera possibile soluzione. È il nostro abbandono quasi “estatico” alla tecnologia che altera i rapporti tra le cose, e ne sancisce uno svuotamento; la nostra inerzia crescente all’esercizio del pensiero critico, del “saper dividere”, gonfi come siamo di informazioni e messaggi, in una bulimia semiotica che ci rende molli, fiacchi, distratti, disorientati.

5. “Intangible-yet-material”: quale idea di Capitale Sociale in una società liquida e disintermediata

Rientrato in Italia, in questi ultimi mesi ho avuto la fortuna di ascoltare tante voci “critiche” e lucide all’interno e all’esterno della nostra professione, tante proposte di “temi interessanti”, che potrebbero certamente essere utili/pertinenti per rilanciare non solo la Ferpi (possibilmente in un’ottica internazionale), ma in generale un’intera professione. Il punto è che per “celebrare il rito della crisi” non basta “portare all’altare” dei temi “interessanti”: occorre davvero mettersi a nudo, come categoria professionale, avere il coraggio di fare un bilancio e capire cosa portare avanti e cosa no, per cosa lottare e cosa invece sia bene abbandonare. Credo che il Background Paper portato dalla Delegazione italiana a Bled, insieme con i contributi alla Opening Session, rappresenti già un contributo prezioso per provare a trovare il famoso bandolo della matassa, un punto di partenza per capire cosa “dividere” e cosa “sacrificare” nel futuro della nostra professione.

Toni Muzi Falconi ha ricordato, in un suo pezzo recente in cui faceva proprio il “bilancio” di quest’esperienza che la nostra Delegazione in qualche modo ha addirittura anticipato il tema della prossima Edizione di Bledcom, in quanto la riflessione sul tema dell’anno corrente “Trust and Reputation”, ha portato in modo quasi fisiologico ad interrogarci sul senso profondo del nostro agire come comunicatori, proprio noi che dovremmo essere “tessitori” di Fiducia e Reputazione per conto delle organizzazioni complesse per le quali lavoriamo. Non porsi in quest’ottica significherebbe procedere come il rabdomante che si ostina a oscillare un bastoncino biforcuto, senza capire che sta morendo di sete. Non intendo qui aggiungere altro “rumore” al dibattito che cerca di capire se il “barometro” si sia davvero rotto, o se i “track-models da istituto” siano ancora validi: Fiducia e Reputazione sono sempre stati i due “pilastri” della nostra disciplina e e mi sembra certo è che entrambe saranno ancora alla base della scommessa che si giocherà per ridefinire il nostro ruolo e il nostro valore come categoria professionale, in un momento in cui persino il suo stesso significato sembra essere stato notevolmente ridimensionato da questa “crisi” - endogena o esogena a questo punto non fa differenza: siamo comunque noi che dobbiamo “rialzarci”.

Il Paper portato dalla Delegazione a Bled ha dimostrato, anche attraverso la condivisione di importanti Case Histories squisitamente nazionali, come la capacità di gestire e comprendere il valore intangibile – ma sostanziale, sia il fattore che può ancora fare la differenza; in qualche modo il mix di abilità, competenze, conoscenze ed esperienza del comunicatore appare ancora – per ora – insuperato, quale autentico asset capace di creare Capitale Sociale e quindi valore. Può allora – anzi, deve! - essere compito dei comunicatori “ricucire lo strappo” odierno tra pubblico e privato, tra alto e basso, tra intermediazione e disintermediazione, creando valore intangibile ma “sostanziale” tra tutti i corpi sociali. È una questione di zeitgeist? Che senso ha continuare a criticare il fenomeno Greta perché banalizzante, massivo, “derailed”, se non siamo poi in grado di portare soluzioni alternative e concrete, capaci di generare un coinvolgimento (involvement o engagement?) adeguato della massa critica.

Sono convinto che come categoria abbiamo ancora molto da dire e soprattutto molto, moltissimo da fare, e questo perché le organizzazioni complesse sono ancora gli attori principali che possono e devono lavorare per il raggiungimento di obiettivi di interesse comune nei territori su cui operano, in linea con il principio di sussidiarietà e attraverso una governance oculata dei loro reciproci sistemi di relazioni. La dialettica del “glocal” è ormai finalmente superata, possiamo considerare “lobal” la cifra attraverso cui un territorio o un’organizzazione possono rendersi distintivi attraverso un uso - responsabile - delle piattaforme di interazione (digitali): devono saper “mettere in rete” la loro identità. Oggi più che mai ha senso ragionare su scala globale, mentre cerchiamo di risolvere i problemi di casa nostra; e viceversa. Il portato di questa riflessione potrebbe quasi apparire “connaturato” alla storia delle Relazioni Pubbliche, se non fosse che numerosi segnali concorrono a delineare uno scenario tutt’altro che rassicurante, che rende niente affatto scontata la capacità reale di creare ancora Capitale Sociale da parte della categoria dei Comunicatori. Come affermavano qualche anno fa Gianluca Comin e Donato Speroni in un loro libro illuminante “sarebbe impossibile fronteggiare la "tempesta perfetta" senza una profonda ridiscussione dei meccanismi di creazione del consenso delle opinioni pubbliche, indispensabile per una solida e duratura azione politica”.

6. Ricucire lo “strappo”: un lavoro da tessitori

Siamo così spaventati di perdere quel briciolo di privilegi accumulati con fatica eppure così fragili, che l’idea di guardare senza filtri alle ferite del mondo, in fondo, ci terrorizza. Chiedetelo ai Curdi, in questi giorni, cosa ne pensano della nostra moderata visione da progressisti con la pancia piena. Il Punctum barthesiano è semmai materia da lasciare agli artisti, ai “filosofi”, ai pazzi, agli speculatori. L’ambito dei Comunicatori si è ormai ridotto a quello del puro Studium, che però nel frattempo è diventato a sua volta il dominio assoluto della tecnica, della tecnè. “Da pupari siamo diventati pupi”, ed è sempre meno chiaro chi stia tirando i fili cioè, nel nostro caso, le fila del discorso. E poco importa se si tratti del discorso politico, o del discorso sul consumo, o ancora della (parvenza di) autodeterminazione più o meno edonistica dell’individuo: noi non ne siamo più i soggetti. E in quest’epoca di piattaforme “decisionali” dai nomi illuministicamente beffardi, di partecipazione distribuita, anzi liquida, si è ormai perfettamente sublimata la menzogna di aver finalmente raggiunto una partecipazione pienamente simmetrica, perché celebrata proprio nel trionfo - nemmeno tanto occulto - di una nuova, inarrivabile asimmetria cognitiva e sociale.

Non è allora un caso che stiano scomparendo o siano scomparsi i corpi intermedi nelle società occidentali. Tramonto triste, certo, forse inevitabile, comunque problematico: del resto la tecnica, la macchina, l’intelligenza artificiale trascende la volontà, tanto dei singoli quanto dei gruppi – di interesse e di pressione: come una nuova “volontà di potenza” di nietzschiana memoria, la tecnica punta solo ad ottimizzare: sé stessa, il mondo là fuori, la performance. Per questo non ha bisogno di “mediazione”: è immediata, nel senso proprio di “non mediata”, traduce l’illusione della partecipazione attraverso il click su un’interfaccia, ma la nostra ignoranza delle stringhe di codice soggiacenti a quel like ci rende ancora un po’ meno liberi di un tempo. L’assoluto tecnico, privo di vincoli, è ormai insieme perimetro di azione e orizzonte di significati – ma non di senso, almeno non ancora.

Queste considerazioni possono apparire pessimistiche, eppure per citare ancora Nietzsche credo che occorra oggi un nuovo “nichilismo attivo”, per poterci confrontare con fenomeni contemporanei di tale complessità e portata che sembrano annullare il potere individuale e collettivo di fare ancora la differenza. Possiamo forse, allora, ricominciare da qui: possiamo provare a ricucire lo strappo, partendo proprio da quel “tessuto sociale” legato da sempre ai corpi intermedi: potremo riuscirci solo se lo faremo insieme, come collettività di professionisti, e non come singoli, come cittadini prima ancora che come relatori pubblici o comunicatori o imprenditori. Una speranza, questa, più che una previsione, o meglio una visione rafforzata però dal significato di un’unica parola, che forse può ancora aiutarci a ricomporre il senso della nostra professione: textum. Per l’ultima volta in queste righe dunque proviamo a seguire una “stratigrafia etimologica” per ritrovare più antiche “tracce di senso” nel ragionamento. Textum, un participio passato, dal latino texĕre, tessere: il “tessuto” e, quindi, il “testo”, riuniti in un’unica parola, in un unico concetto. Mi piace pensare che possa essere questa la cifra di un nuovo agire del comunicatore, insieme “autore di comunicazioni” e “tessitore di relazioni”, textum come produzione di senso e sutura dello strappo; lavoro sui significanti, certo, ma anche e soprattutto lavoro sul tessuto sociale, sui significati, tra le persone. Il textum, del resto, è da sempre un concetto alla base della comunicazione: può tornare ad essere anche il nuovo fondamento della nostra azione, del nostro impegno.

7. Conclusioni?

L’ago di questo ri-cucire sarà dunque la nostra capacità di pensiero critico, la capacità di “bucare” la superficie delle cose, con uno sguardo pungente, acuto, che sa andare a fondo. In un’epoca di neo-verità e fake-reality il Pensiero Critico diventa davvero lo strumento indispensabile, anzi imprescindibile per tornare a porsi le giuste domande, prima ancora di pretendere di trovare le “giuste” risposte. Il filo di questa azione di “tessitura” anzi il suo “fil rouge”, non potrà che essere la cultura, la formazione, la conoscenza, la sofìa. Il pensiero critico taglia, divide, separa, affonda nella materia delle cose, buca il tessuto apparentemente acuendone lo strappo, la ferita: è “punctum” perché agisce su un punto, insiste nel particolare, entra nel merito delle cose; ma è veramente determinate solo se porta con sé il “filo”, lo “studium”, il bandolo della matassa, che è l’elemento della sutura, della ricomposizione, della pace sociale come equilibrio dinamico, come prodotto dialettico continuo. Resta da chiedersi quale possa essere, allora, la pulsione alla base non solo della nostra professione ma della nostra arte (nel senso di ars, dunque abilità). Io credo che sia la curiosità. Senza di essa non vi è tensione, filìa, passione; senza movimento non vi è narrazione, maestria, trasformazione. “Ago e filo” non bastano: dobbiamo volerlo. Dobbiamo agire.

Probabilmente è già troppo tardi: forse l’algoritmo ha già superato il limite. Come afferma Galimberti, in un’intervista di quest’anno “siamo arrivati ad un punto irreversibile. Continuiamo a domandarci cosa possiamo fare noi umani con la tecnica ma la domanda è opposta: cosa la tecnica può fare di noi”. E se persino un ebreo come Anders è arrivato ad affermare che il nazismo è stato «un teatrino di provincia» rispetto all’età della tecnica, forse c’è davvero da impensierirsi. Ma, almeno, possiamo ancora provare a “mettere in comunione” le cose, le persone, le collettività, i significati: e per far questo non basta più lo Studium, non è sufficiente catalogare o comprendere le forme della rappresentazione. Dobbiamo sapere guardare al Punctum, dobbiamo nuovamente saperci emozionare, per guardare oltre lo strappo, alla ferita, e partire da lì per ri-creare senso. Come comunicatori e come cittadini dobbiamo tornare a emozionarci e ad emozionare, restituendo all’emozione un ruolo più complesso e pertinente, dopo decenni di apparente dominio incontrastato di una “ragione” che, da sola, si riduce inevitabilmente alla tecnica. Dobbiamo sapere generare coinvolgimento autentico, prima di puntare all’engagement.

Dobbiamo finalmente diventare il nostro “testo”. È arrivato il momento di viverlo.

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