Veronica Boldrin
'Immagine' è la parola al centro del terzo appuntamento nel ciclo di conversazioni con Silvia Brena.
Un termine che oggi sembra dominare ogni forma di racconto, personale e collettivo, ma che in realtà ci accompagna da sempre, intrecciandosi con la parola per dare forma e senso alla comunicazione.
Con Silvia esploriamo le molteplici dimensioni dell’immagine: da quella visiva – che si esprime in post, selfie, feed curati – a quella immateriale, fatta di percezione, identità, posizionamento. Riflettiamo su come, nell’era dei social e dell’intelligenza artificiale, immagine e racconto si siano fusi in un unico codice espressivo, dando vita a una narrazione integrata e ininterrotta.
Parliamo di verità e artificio, e della sottile linea che separa l’immagine autentica da quella costruita. Ci interroghiamo sulla bellezza – levigata o imperfetta, scolpita o viva – e su come, oggi, la pressione verso un’estetica idealizzata stia influenzando profondamente soprattutto i più giovani.
Dalla responsabilità etica di chi comunica, al bisogno profondo di riconoscimento che muove ogni narrazione personale o di brand, fino all’importanza – fondamentale – della coerenza tra ciò che siamo e ciò che mostriamo: questa intervista è un viaggio dentro le immagini che ci definiscono, ci raccontano e, a volte, ci nascondono.
Cosa significa per te la parola immagine oggi, nel contesto della comunicazione contemporanea?
Oggi “immagine” è uno degli elementi fondamentali di qualsiasi messaggio – ma lo è sempre stato. Ogni tipo di comunicazione, ogni approccio, è composto da immagine e testo. Questi due elementi costruiscono il nostro messaggio, il nostro racconto, il nostro metalinguaggio. Sono il modo in cui ci comportiamo e ci raccontiamo nella vita. Da questo punto di vista, in fondo, non c’è stato un grande cambiamento.
Tuttavia, quando parliamo di comunicazione oggi, dobbiamo distinguere due piani: da un lato, l’immagine come ciò che visivamente prende forma nel nostro racconto; dall’altro, l’immagine come percezione che diamo al mondo, la rappresentazione che costruiamo di noi stessi e del nostro posizionamento. Questi due livelli si sono sempre più fusi, ed è per questo che oggi parliamo di “società dell’immagine”. È questa la grande variabile che ha cambiato tutto.
In che modo il concetto di immagine si è evoluto nel tempo? C’è stata, secondo te, una trasformazione nel modo in cui viene usata o percepita?
Sì, assolutamente. C’è stata un’evoluzione, e non solo sul piano della percezione, ma anche sul piano dell’uso. Il passaggio dall’era analogica a quella digitale ha comportato la cosiddetta disintermediazione: la creazione e la diffusione dell’immagine non sono più appannaggio esclusivo dei professionisti – fotografi, giornalisti, comunicatori, pubblicitari – ma di chiunque.
Oggi tutti hanno accesso alla costruzione di contenuti: viviamo nell’epoca della convergenza e dei contenuti generati dagli utenti (user generated content). Questo ha dilatato enormemente le possibilità e ha moltiplicato i canali espressivi. I selfie, le immagini “da feed”, il racconto visuale personale sono diventati la norma. Ma attenzione: l’immagine non è mai solo visiva. È sempre intrecciata con la parola. Il racconto che facciamo al mondo, oggi più che mai, è un tutt’uno fatto di immagini, testo, estetica, ritmo, scelta.
Viviamo in un mondo iper-visivo: secondo te, l’immagine ha preso il posto della parola, o convivono su piani differenti?
No, non credo che l’immagine abbia preso il posto della parola. Ma non si può nemmeno dire che convivano su piani separati. Il racconto oggi è unico: immagine e parola non sono più scindibili. Questa trasformazione è il frutto dell’uso quotidiano e massiccio dei mezzi di comunicazione, in particolare delle piattaforme social, che hanno dato a tutti accesso alla costruzione del proprio racconto.
La cifra identitaria di una persona – o di un brand – si costruisce attraverso un racconto integrato, in cui immagine e parola sono parti dello stesso messaggio. Strumenti e formati si sono evoluti, ma anche il nostro modo di pensare il posizionamento: oggi comunichiamo attraverso “immagini parlanti” e “parole visuali”, in una narrazione che è sempre più unitaria.
L’immagine può raccontare la verità? O tende più facilmente a costruire una narrazione di comodo, un’apparenza?
L’immagine, nei tempi antichi, era fortemente legata alla verità. Per i Greci, per esempio, il concetto di bellezza era sintetizzato nella parola kalokagathìa, che univa il bello e il buono. La bellezza non era solo estetica, ma anche etica: un’armonia tra virtù, aspetto, forza e onore. Anche la parola “estetica” deriva dal greco aisthesis, che significa sensazione, percezione, sensibilità. Le nostre radici culturali e linguistiche ci ricordano che immagine e verità erano – e possono ancora essere – profondamente connesse.
Esporci al mondo attraverso un’immagine è un atto di verità: quel che decidiamo di mostrare dice qualcosa di autentico, anche solo il nostro desiderio di essere visti. Ma è altrettanto vero che oggi possiamo costruire immagini false, artificiali, perfettamente levigate, grazie alla tecnologia. E questo ci pone davanti a nuove responsabilità.
Qual è il confine tra immagine autentica e immagine costruita? È sempre possibile distinguerle?
Il tema dell’artificio è centrale, oggi più che mai. Viviamo in un’epoca sempre più dominata dall’intelligenza artificiale, che ci permette di costruire veri e propri simulacri: immagini perfette ma irreali, che non testimoniano il reale ma lo simulano. La fotografia, un tempo, era una certificazione del reale. Oggi può essere il veicolo di una narrazione completamente costruita.
Tutto questo ci riporta al ruolo del racconto, che è oggi dominante: l’immagine è funzionale al racconto, lo rafforza, lo incornicia, lo rende credibile. È difficile distinguere sempre tra ciò che è autentico e ciò che è costruito. Però possiamo e dobbiamo interrogarci sul perché comunichiamo e cosa vogliamo comunicare.
Quanto è importante per un brand (o una persona) avere un’immagine coerente con la propria verità?
È importantissimo. L’immagine deve riflettere l’identità, altrimenti si crea uno scollamento che compromette la credibilità e la reputazione. La coerenza tra ciò che si è e ciò che si comunica è il fondamento dell’autorevolezza. Un brand incoerente risulta poco affidabile, e questo si riflette sul rapporto con clienti, stakeholder, pubblico.
Ricordo bene il progetto “Per una bellezza autentica” di Dove, a cui ho lavorato all’inizio della mia carriera quando ho fondato l’agenzia “Network Comunicazione”. Era una campagna rivoluzionaria perché metteva in discussione gli stereotipi di bellezza e svelava i meccanismi della costruzione artificiosa delle immagini. Penso ai video con il processo di fotoritocco, alla denuncia dell’alterazione della realtà. Oggi, nell’era dell’AI, tutto questo è ancora più urgente.
E poi c’è un altro tema: la responsabilità dei comunicatori. Nell’epoca delle “verità alternative”, delle immagini generate dall’AI – come il finto arresto di Trump o il Papa col piumino bianco – servono anticorpi forti. Servono competenze, sensibilità, etica. E serve consapevolezza, anche da parte delle aziende.
Nel tuo libro Parole in tempesta affronti il tema della bellezza: in che modo la bellezza si intreccia con l’immagine?
La bellezza è parte integrante del racconto che facciamo al mondo di noi stessi. Può assumere forme diverse: può essere levigata, scolpita, controllata... ma anche istintiva, imperfetta, viva. Oggi, se parliamo con chi lavora nella sanità o nella psicologia, ci rendiamo conto che assistiamo a fenomeni molto complessi: dalla chirurgia estetica nelle adolescenti, al boom del botox, fino alla diffusione dei tatuaggi. L’Italia è tra i paesi con il più alto tasso di tatuati e i tatuatori professionali sono aumentati, dal 2022, del 376%.
Tutti questi segnali ci parlano di un corpo che è sempre più narrato, mostrato, performato. Gli psicologi direbbero che siamo di fronte a una grande sofferenza psichica. Ma io aggiungerei: siamo anche di fronte a un profondo bisogno di racconto, di significato, di riconoscimento.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han parla di “società palliativa”, una società che rifugge il dolore e la negatività per raccontarsi come una soap opera, dove tutto è armonioso, piacevole, liscio, senza spigoli. Pensiamo alla cultura del like: l'approvazione pubblica è diventata una sorta di analgesico emotivo. Tutto dev’essere instagrammabile, tutto dev’essere perfetto. Ma questo ideale di perfezione può diventare una gabbia.
Quanto hanno cambiato i social media il nostro modo di pensare e costruire l’immagine di noi stessi?
Tantissimo. I social hanno modificato profondamente la nostra percezione dell’immagine, perché hanno reso possibile per tutti costruire e diffondere il proprio racconto. Hanno democratizzato la comunicazione, sì, ma al tempo stesso l’hanno resa più fragile e più esposta.
Viviamo in una società che rigetta la negatività, perché negatività è sinonimo di fallibilità, imperfezione. E questo è un problema enorme, soprattutto per i più giovani. Pensiamo al disagio giovanile crescente, ai disturbi alimentari, al bisogno di riconoscimento che si traduce in ansia da visibilità. In Parole in tempesta, cerco di collegare le parole a concetti “ponte”: nel caso della bellezza, le parole ponte sono dolore, ascolto, sofferenza, paura di non essere visti.
Questa costruzione costante di un’immagine perfetta e levigata risponde a un bisogno profondo di riconoscimento. In certi casi diventa una vera e propria fame atavica.
Sui social si parla di personal branding, visual storytelling, aesthetic feed: quanto c’è di autentico e quanto di strategicamente costruito?
La bellezza, da sempre, è fatta di luce e ombra. Pensiamo a Caravaggio. O alla fotografia: lo raccontano i fotografi stessi. La bellezza è fatta di sfumature, di profondità, di unicità. Invece il mondo digitale, per sua natura, tende alla polarizzazione. È un codice binario: bianco o nero, like o dislike, perfetto o fallito.
Il personal branding, il visual storytelling, l’estetica dei feed social possono essere strumenti potenti. Ma devono essere gestiti con consapevolezza e con professionalità. Troppo spesso vediamo contenuti creati da chi non ha le competenze per gestire questa complessità. L’avvento dell’intelligenza artificiale rende tutto ancora più delicato: serve rispetto per la verità, per il pubblico, per le fonti.
Verità e bellezza sono due parole chiave. Sono ponti tra ciò che siamo e ciò che raccontiamo. Chi si occupa di posizionamento – di brand o di persone – ha il compito di usare strumenti professionali, di costruire narrazioni coerenti e autentiche. Anche all’università bisognerebbe insegnare di più questi temi, dotare i giovani degli strumenti per navigare questo mondo complesso.
C’è una promessa sottile che i social fanno: quella del “quarto d’ora di celebrità” – la famosa frase di Warhol. Solo che oggi non è più un quarto d’ora: è l’aspirazione di una vita intera. Per questo, la mia raccomandazione è sempre la stessa: rimanere il più vicino possibile al proprio “io” autentico. Il problema è che oggi si parla più di “ego” che di “io”. E questa è una sfida culturale.
Pensi che l’esposizione costante a immagini ‘filtrate’ o idealizzate stia influenzando la percezione che i giovani hanno del proprio corpo, del proprio valore, del concetto stesso di successo?
Sì, assolutamente. Lo vediamo ogni giorno: l’esposizione costante a modelli estetici inarrivabili o artefatti sta generando insicurezze, ansia, disagio. E il bisogno di perfezione – così radicato in certi meccanismi di comunicazione – è direttamente collegato alla costruzione dell’identità. I “modelli impossibili” lasciano dietro di sé una lunga scia di feriti.
Penso alla serie Adolescence, che racconta con grande verità il disagio giovanile. C’è una profonda bellezza anche in chi soffre, e nel coraggio di raccontare la propria sofferenza in modo autentico, non filtrato, non levigato. Questo tipo di bellezza – fatta di unicità, di ferite, di profondità – è molto più potente di qualunque estetica perfetta e finta.
Cosa perdiamo quando ci affidiamo troppo all’immagine per comunicare chi siamo?
Perdiamo la nostra verità. Perdiamo la sostanza. Perdiamo il nostro “io” profondo. È un po’ come è successo con la fotografia digitale: leviga, appiattisce, rende l’immagine bidimensionale. Invece la bellezza, per sua natura, è tridimensionale. È fatta di complessità, di profondità, di tensioni.
Viviamo di numeri, di conteggi, più che di racconti. E questo è pericoloso, perché finiamo per perdere la nostra unicità, la nostra cifra identitaria. E anche la nostra responsabilità, come individui e come comunicatori.
Quale responsabilità ha oggi chi lavora nella comunicazione?
Una responsabilità enorme. Siamo chiamati a costruire racconti che siano veri, coerenti, rispettosi. E che siano in grado di trasmettere armonia, e non solo estetica levigata. Siamo in un’epoca di narrazioni costruite, fake news, AI generativa, filtri e simulazioni. In questo contesto, la professionalità e l’etica sono fondamentali.
Chi comunica deve sapere usare gli strumenti con competenza, ma anche con consapevolezza. E con una tensione continua verso la verità.
Mi piace concludere con un aneddoto che racconto sempre nel mio libro: la sequenza di Fibonacci. Questo matematico del XIII secolo ha individuato una proporzione che ritroviamo ovunque in natura – nei fiori, nei corpi, nelle galassie, nelle conchiglie. È il numero “fi”, 1,618…, chiamato anche “proporzione divina”.
Questa proporzione ci dice qualcosa di profondo: che noi, naturalmente, tendiamo all’armonia. Ecco, se riuscissimo a tradurre immagine e bellezza in armonia – non in perfezione – allora avremmo fatto davvero un grande servizio al mondo.