Veronica Boldrin
Con questa intervista, dedicata alla parola identità, si chiude il viaggio attraverso le “Parole in tempesta” insieme a Silvia Brena. Un percorso fatto di riflessioni profonde, connessioni inattese e sguardi nuovi su termini che attraversano il nostro tempo, la nostra professione e la nostra vita.
Ringraziamo Silvia per averci accompagnato in questo cammino con la sua visione lucida e appassionata, capace di restituire spessore e senso a parole spesso abusate o svuotate.
Ma il dialogo non finisce qui: Silvia Brena sarà infatti tra i relatori dell’evento organizzato da FERPI nell’ambito di Fotografia Europea. Un panel di relatori d’eccezione, seguendo il tema “Avere vent’anni”, esplorerà il rapporto tra comunicazione, giovani e nuove generazioni: come linguaggio e tecnologia influenzano la loro percezione del mondo, il modo di informarsi e informare per costruire insieme il futuro. Un’occasione per continuare a esplorare – dal vivo – il potere del linguaggio e della narrazione nei nostri mondi complessi.
Nel tuo libro “Parole in tempesta” esplori come certe parole si carichino di nuove sfumature nel tempo. Cosa succede oggi alla parola “identità”? È ancora un ancoraggio stabile o si sta trasformando?
Una delle parole che ho più approfondito nel mio libro è proprio “identità”. È un termine complesso, ricco di significati. Come scriveva Elias Canetti, “le parole hanno una coscienza”. E identità è una di quelle parole profondamente intrecciate con il passaggio epocale che stiamo vivendo. In un’epoca fluida, le identità si sfaldano, si ridefiniscono, dando vita a un nuovo lessico dell’appartenenza.
Oggi, nell’era del digitale e dell’intelligenza artificiale, ci chiediamo: chi siamo? E cosa possiamo diventare? Basta guardare la voce “identità” sulla Treccani: spazia dalla carta d’identità allo SPID, dall’alias al gender swap, fino all’identità non binaria. Racconta un panorama in movimento, che mette in gioco la nostra storia, le nostre credenze, i nostri riferimenti culturali.
Ma attenzione: i gruppi identitari rischiano talvolta di trasformarsi in gabbie. Pensiamo al genere: ridefinirne i contorni è un’esigenza profonda, ma può diventare una nuova forma di costrizione. Questo vale anche per il lavoro: dopo il Covid, abbiamo assistito alla “Great Resignation”, una rottura netta – soprattutto per le generazioni più giovani – con l’idea del lavoro come pilastro identitario. Per la mia generazione, l’identità coincideva con la professione. Oggi, invece, a definire chi si è sono altri elementi: le relazioni, la famiglia, la collocazione nel mondo.
Cosa significa oggi “avere un’identità”, sul piano personale, professionale, culturale? È ancora un valore?
Assolutamente sì. L’identità resta fondativa. Penso spesso al celebre discorso di Pericle, riportato da Tucidide, durante la guerra del Peloponneso. Diceva: "Qui ad Atene noi facciamo così". Una frase ripetuta più volte, che definiva in modo potente l’identità degli ateniesi rispetto agli spartani. Questo “noi facciamo così” è un richiamo fortissimo al senso di appartenenza.
Oggi ci chiediamo: chi siamo noi europei? Ci siamo ridefiniti anche per opposizione, dopo eventi politici globali come i dazi dell’amministrazione. Ogni identità ha bisogno di confini, ma anche di narrazioni. Psicologi e antropologi ci ricordano che, una volta definita un’identità, le persone tendono a crearsi l’immagine stereotipata di un membro tipico di quel gruppo. Ecco perché oggi è fondamentale il racconto di chi siamo, soprattutto in un’epoca di identità fluide.
E questo vale anche per le aziende: la cultura aziendale, i valori, la purpose sono elementi identitari fortissimi. I giovani – e non solo – scelgono un’azienda anche in base alla sua identità valoriale. Pensiamo all’identità italiana: spesso ci lamentiamo di ciò che non siamo, ma dovremmo lavorare su ciò che siamo davvero – creativi, ammirati nel mondo – e farne un elemento di orgoglio e posizionamento.
Identità e inclusione: come possono convivere?
Possono convivere eccome. L’identità non è per forza esclusiva. Ma è vero che, nel momento in cui ci identifichiamo in un gruppo, tendiamo a creare una distinzione tra in-group e out-group. Tuttavia, su questo possiamo lavorare, a partire proprio da un’educazione identitaria più consapevole.
Prendiamo l’identità di genere: è uno dei primi livelli identitari che incontriamo. E sappiamo quanto sia stato (e sia ancora) modellato da fattori culturali, educativi, linguistici. Le bambine con le bambole, i bambini con i trenini: rappresentazioni del mondo della cura e dell’azione che si riflettono anche nel linguaggio.
Il linguaggio, infatti, è cruciale. Le parole forgiano la realtà. Cambiare il linguaggio è già un atto inclusivo. Dire a misura d’uomo o gli infermieri implica una rappresentazione parziale. Usare espressioni come a misura umana, o persone con disabilità anziché disabili, restituisce soggettività e rispetto. È un’operazione identitaria e inclusiva insieme.
L’identità può diventare una linea di confine, un “noi” contro “loro”?
Esserne consapevoli è il primo passo. C’è un esperimento del 1953, nei boschi dell’Oklahoma: due gruppi di bambini, “serpenti” e “aquile”, iniziano a competere. Pur essendo omogenei per età, provenienza e cultura, l’identificazione nei due gruppi porta rapidamente a scontri. Le parole, i simboli, le etichette, modellano i comportamenti.
L’antropologo Kwame Anthony Appiah dice che ogni identità rende possibile parlare come un io in mezzo a un noi. È un’affermazione potentissima, a patto che quel “noi” non diventi uno strumento di esclusione, di ostilità, di costruzione del nemico. Purtroppo, esempi di questo tipo non mancano nel mondo di oggi.
Parlando di identità di brand, vediamo una tensione tra posizionamento chiaro e adattamento ai cambiamenti. È ancora possibile parlare di coerenza identitaria?
Sì, ed è fondamentale. L’identità di un brand si costruisce su quattro pilastri: valori, storia, comunità di riferimento e coerenza tra dichiarazioni e azioni. È questo che dà credibilità. Le persone – giovani e meno giovani – scelgono un’azienda non solo per l’offerta economica, ma per ciò che rappresenta, per il suo impatto, per quanto è fedele alla sua missione.
E questo vale anche per i consumatori. I brand con una forte identità sono riconoscibili, memorabili. Parlano, si comportano, interagiscono come vere e proprie persone o gruppi sociali.
In un’epoca di sovraccarico comunicativo e di storytelling permanente, qual è il ruolo delle parole – e della parola giusta – nella definizione e nella percezione dell’identità? Quanto conta il linguaggio nel rendere un’identità riconoscibile, autentica, credibile?
Il linguaggio conta moltissimo. Anzi, si può dire che oggi la partita più importante si giochi proprio sul terreno del linguaggio, in un momento storico in cui l’identità è sempre più difficile da definire. Un’identità fluida, certo, ma anche minacciata. Pensiamo a una domanda che risuona ovunque: chi siamo? E soprattutto: chi saremo?
Viviamo in un tempo in cui l’intelligenza artificiale è entrata massicciamente nelle nostre vite. Ma non dimentichiamoci che si tratta di un'entità "altra". Come sottolinea lo storico Yuval Noah Harari, per la prima volta nella storia l’essere umano si confronta con un’intelligenza aliena. “Aliena” non nel senso fantascientifico, ma nel senso più radicale del termine: un’intelligenza non umana, che non appartiene ad alcuna specie vivente conosciuta. Ed è un’intelligenza capace di sfruttare le nostre debolezze, i nostri pregiudizi, le nostre dipendenze.
In questo scenario, la nostra identità – non solo individuale, di genere, culturale, nazionale, o di brand – ma quella più profonda, l’identità umana, si trova sotto pressione. Siamo chiamati a ridefinirla. E allora torna centrale il ruolo delle parole.
Harari lo ricorda con forza: “In principio era la parola”. È la Bibbia a dircelo, il logos, la parola di Dio. La lingua è il sistema operativo della cultura umana. È attraverso le parole che abbiamo costruito i miti, le leggi, gli dèi, il denaro – tutto ciò che costituisce il patrimonio simbolico e culturale dell’umanità. Il nostro modo di stare al mondo si è sempre fondato sulle parole.
Oggi, però, siamo di fronte a un’intelligenza artificiale che può manipolare questo stesso sistema operativo, appropriandosi del linguaggio. Ecco perché il concetto di autenticità torna con forza. Per essere credibili, oggi più che mai, bisogna essere autentici. Lo vediamo bene anche nel mondo dei brand, dove la coerenza narrativa è diventata imprescindibile in un’epoca percepita come “fake”.
E allora? Dobbiamo continuare a interrogarci, a pensare che l’IA resta pur sempre uno strumento a nostra disposizione. Ma dobbiamo anche continuare a lavorare su ciò che ci rende umani: sulle persone, sulle comunità, sulle relazioni.
La comunicazione interna, soprattutto dopo il Covid, ha compiuto passi da gigante. Lavorare sulle comunità, a partire dalle proprie persone, è fondamentale. Perché tutto ciò che riguarda la capacità di trasmettere cultura, memoria, storia, valori – in una parola, identità – resta alla base di ogni comunicazione davvero significativa.
Siamo arrivati all’ultima tappa di questo ciclo. Queste le parole “ponte” che, nel tuo libro, leghi ad identità: empatia, accettazione, diversità, memoria, diritti, paura, fluidità. Ce n’è una che più delle altre ci aiuta a riflettere sul nostro ruolo di comunicatori e di esseri umani?
Intanto grazie a te, Veronica, e a FERPI, per questo viaggio appassionante a partire dal mio libro Parole in tempesta. Chiudiamo con la parola “identità”, ed è giusto così.
Abbiamo parlato di fluidità, non solo di genere ma come apertura, come superamento dei confini. Calvino diceva che l’identità è un fascio di linee divergenti. Forse è proprio lì che dobbiamo guardare: alle divergenze, alle molteplicità.
La parola chiave, allora, è accettazione. Accettare la diversità, accettare di non essere tutti uguali, accettare che l’identità non è mai univoca. Come diceva Alton Krenak, leader indigeno dell’Amazzonia: “essere diversi è una ricchezza, non siamo un’unica umanità con un solo protocollo”.
E come rispondeva Walt Whitman a chi gli chiedeva chi fosse: “I’m large, I contain multitudes”. Ognuno di noi è una moltitudine. Non siamo monadi isolate, ma parte di una rete complessa di relazioni. È da lì che nasce – e si rinnova – la nostra identità. Allora, se dobbiamo andare a ridefinire il lemma, - abbiamo visto come la Treccani lo aveva definito -, io direi “identità: neutro - condizione fondativa impossibile da definire a priori, perché contiene moltitudini”.