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Il cambiamento possibile

16/12/2016

Cambiare è inevitabile. La vita stessa è cambiamento perché vivere significa adattarsi a un ambiente in continua evoluzione. Questo vale per le persone tanto quanto per le organizzazioni. In una intervista con Letizia Ciancio, psicologa, esperta di comunicazione e socia Ferpi, autrice de "Il cambiamento possibile", i segreti per conoscere e "guidare" il cambiamento perchè non sia un destino da subire ma un'opportunità per crescere.

Un tema di grande attualità quello del tuo libro. In un momento storico in cui si invoca a gran voce il cambiamento, tu sostieni che sia “un dato di fatto, non un atto di volontà” e che la volontà è possibile esprimerla soltanto imprimendo direzione e velocità. Verrebbe da dire che sembra facile ma poi… in che modo si realizza davvero il cambiamento per un singolo o per un’organizzazione?
Beh… innanzitutto vorrei dire che “guidare” il cambiamento è facile solo come concetto da capire… ma nella pratica, realizzarlo è tutt’altro che facile! Siccome le metafore supportano spesso meglio la comprensione, mi piace utilizzare l’immagine dell’automobile: noi dobbiamo imparare a guidarla, innanzitutto con la consapevolezza del motore che abbiamo in dotazione, perché evidentemente non è la stessa cosa avere tra le mani una Cinquecento o una Ferrari…; una volta compreso il tipo di viaggio che potremmo fare con la nostra auto, dobbiamo procurarci una cartina stradale e mettere benzina a sufficienza. Fuor di metafora, significa avere tre “ingredienti”: la CONSAPEVOLEZZA di sé stessi (potenzialità e limiti del nostro motore/mente-psiche), un SENSO da dare alla nostra vita (la cartina stradale) e una sana dose di buona MOTIVAZIONE (la benzina). Questi tre elementi sono distinti ma profondamente correlati e reciprocamente influenti, per questo non basterà averne solo uno o due, ma occorrono tutti. Altrimenti prima o poi ci perderemo per strada, o perché – privi di cartina - avremo fatto un percorso troppo lungo e nel frattempo la benzina sarà finita, o bruciando il motore perché abbiamo preteso di correre a 200km/h con una cilindrata da Cinquecento, o viceversa perché abbiamo costretto a passo d’uomo una Ferrari, e così via. Sicuramente questi tre elementi vanno governati e ricercati contemporaneamente… ma se dovessi stabilire una priorità, certamente partirei dalla consapevolezza, un termine oggi non compreso in profondità. Spesso infatti la confondiamo con la conoscenza del nostro “vestito”, del nostro modo di porci rispetto agli altri e di presentarci nel contesto sociale. Ma quanti di noi riescono davvero a leggere in filigrana le reali motivazioni che si celano tra le pieghe dei nostri comportamenti? Quanti sono in grado di auto-osservarsi dall’esterno nelle dinamiche relazionali, attribuendo correttamente cause ed effetti delle proprie azioni e dei propri pensieri? Più spesso accade che ricorriamo a meccanismi psichici elementari, che Freud definiva “difese primarie”, prima tra tutte la “proiezione”, attribuire agli altri la causa del nostro comportamento: “sei tu che mi fai arrabbiare!”. Ora, senza nulla togliere all’oggettività di alcuni comportamenti inadeguati dal punto di vista etico e morale, nelle relazioni umane le dinamiche causali sono circolari, cioè si producono nella reciprocità dello scambio, per cui ognuno è parte in causa. E questo lo sappiamo tutti. Il punto dunque è capire come fare a sbloccare una situazione disfunzionale. E qui diventa più difficile, perché possiamo generalizzare solo in minima parte: ogni dinamica è infatti il risultato complesso di fattori contestuali e di elementi personali di ognuna delle parti in gioco. Non posso descrivere accuratamente in questa intervista come arrivare alle soluzioni, dal momento che nel libro ho impiegato capitoli interi… ma posso dare alcune indicazioni generali, prima tra tutte la capacità di osservare le cose da un altro punto di vista. Anche questo sembra banale, e spesso fuorviante, poiché rischia di scivolare nel detto popolare “me la canto e me la suono”, cioè interpretazioni di comodo (ricordate “La volpe e l’uva”, no…?); ma è un punto da cui partire, perché in fondo – e questo lo spiega la rivoluzione quantistica – la realtà è il prodotto dell’osservazione. Già Epitteto diceva “non sono le cose in sé che ci preoccupano, ma l’opinione che abbiamo di quelle cose”, sottolineando l’importanza di quella che Watzlawick definirà, secoli dopo, “realtà di second’ordine”, cioè come NOI interpretiamo i fatti della vita, il SENSO che gli diamo. E in questa interpretazione si cela il nucleo della RESILIENZA, la capacità di trasformare creativamente ogni ostacolo in grandiosa opportunità per migliorare. Tornando dunque alla tua domanda, come si realizza il cambiamento nel singolo e nell’organizzazione? DIPENDE, questa è la prima parola: dipende da chi ho davanti (età, grado di consapevolezza, autonomia, competenza, capacità, carattere, cultura, genere, ecc.), dal contesto specifico in cui mi trovo (tipo di problema da risolvere, tipo di organizzazione, tipo di mercato in cui opera, situazione economica, ecc.), dal tipo di gruppo in cui agisco (più o meno coeso, più o meno omogeneo, ecc.) e – non ultimo – dal tempo che ho a disposizione, cioè dal grado di urgenza della situazione. Messi insieme tutti questi fattori, uniti ad un’autentica dose di empatia da parte di colui/colei che viene demandato/a come agente di cambiamento, la soluzione sarà inevitabilmente “tailor made”, tagliata su misura, per quella specifica situazione in quello specifico momento. Torna quindi in primo piano la RESPONSABILITÀ di ogni singolo individuo, primo tra tutti il LEADER, che porta su di sé parte del peso del cambiamento altrui. E il leader oggi non può più permettersi di “fare” il capo… deve necessariamente “essere” un TESTIMONE, una guida, lui/lei per primo/a con il suo stesso comportamento e la sua stessa vita. Perché ormai, nell’epoca dell’informazione diffusa e del web, tutti i re sono nudi! E se davvero puntiamo a realizzare un cambiamento significativo e denso (cioè non solo apparente e immediato ma autentico e durevole), dobbiamo essere noi stessi i primi testimoni del cambiamento. Non ci sono altre vie: partire da noi stessi offrendoci come “testimoni” e nello stesso tempo agire sul contesto, stimolando la riflessione inusuale, spostando l’angolatura del pensiero, rimescolando le certezze. Il mettere al centro la Persona è indispensabile, per evitare che l’infinita variabilità consentita dai sistemi complessi, e la conseguente possibilità di attribuire infinite interpretazioni dei fatti, scivoli pericolosamente nel relativismo assoluto, dove va bene tutto e il contrario di tutto.

Parli di “changing”, una logica in cui il cambiamento è visto come un’opportunità da cogliere piuttosto che di “change”, in cui il cambiamento è subìto. In che modo si cambia, con successo, questo paradigma?
Come ho iniziato a dire prima, si cambia se riusciamo a tenere sempre un doppio passo: guardarci dentro ma comprendere le interazioni nel contesto, osservare il particolare ma non perdere di vista il generale, essere autentici ma sapersi comportare all’interno di regole formali, e così via. La complessità attuale ci impone di saper coniugare tra loro gli opposti connaturati nell’esistenza… Noi abbiamo passato secoli, ancor prima di Cartesio, a tentare di separare i due lati della medaglia, ostinandoci a distinguere res cogitans e res extensa, per così dire… ma la realtà è una, ed è l’unione delle polarità. Tutto questo per dire che, se un tempo poteva essere sufficiente assumere solo un punto di vista, ad esempio il lato B della medaglia, oggi siamo costretti dalla rivoluzione tecnologica, ad assumere i differenti punti di vista e a conoscerne buona parte prima di scegliere quello che a noi più si addice. Siamo dunque tutti chiamati ad un apprendimento ancora più elevato dell’“imparare ad imparare”… dobbiamo “imparare a disimparare”, a disabituarci, a rimettere in discussione i nostri assunti e poter così accogliere quelli dell’altro senza paura di disintegrarci e perdere la nostra identità. Perché poi il punto è questo, e sembra un paradosso: le nostre idee/certezze costituiscono l’impalcatura sopra cui si costruisce la nostra identità personale e sociale, il nostro senso di appartenenza ad una comunità. Una volta acquisite ci sentiamo sicuri e dunque tendiamo a non cambiarle… ma oggi la comunità è “globale”, e ci porta inevitabilmente ad un confronto quotidiano con una pluralità di punti di vista differenti dal nostro, e i parametri con cui solitamente valutiamo i fatti saltano in continuazione! Tutto questo ovviamente confonde e disorienta, per questo ci aggrappiamo ancora di più alle nostre convinzioni, per non “annegare”, come dire, nella “liquidità” del post-moderno… Così, proprio mentre dovremmo abituarci a disabituarci, imparare a giocare in modo irriverente con i nostri pensieri e con la nostra mente, tendiamo viceversa ad irrigidirci ancora di più, entrando in un circolo vizioso assai pericoloso per il futuro del pianeta. E la cronaca politica ce lo dimostra in continuazione: conflitti, polarizzazione, “sordità” sociale… incapacità di ascolto profondo e autentico. Quindi, come passare dal “change” al “changing”? Anche qui non ci sono scorciatoie né soluzioni “prêt-à-porter”… perché l’efficacia dipenderà in primo luogo dall’autenticità delle intenzioni e successivamente dalle iniziative adottate. Sempre poi, che l’indicatore scelto per valutare il risultato sia calzante e sostanzioso, cioè che misuri un cambiamento autentico e durevole. Il punto oggi, infatti, è anche il criterio che si sceglie per misurare l’efficacia di un intervento, perché spesso pecchiamo di miopia: così, per ottenere un risultato immediato (che gratifica l’Ego e magari porta un premio di risultato…), bruciamo la possibilità di costruire un “edificio” più grande e robusto in futuro, o meglio ancora di costruire la CAPACITÀ di stare solidamente nella dinamica del cambiamento, cioè imparare a “danzare” il cambiamento, a guidarlo. Uso spesso la metafora della danza per due motivi: da un lato perché racchiude l’idea di una dinamica strutturalmente formata da sequenze “opposte”, cioè continue perdite e riprese di equilibrio; dall’altro perché contiene in sé l’idea del “controllare non controllando”, del lasciare che il corpo si muova, innondato dalla musica, in modo “naturale”. Ma questa “spontaneità” può essere tale solo ed unicamente quando poggia su anni ed anni di ferrea disciplina, che hanno reso quei movimenti fluidi e praticamente automatici. Ecco, il cambiamento oggi deve diventare una sorta di “danza”, di automatismo, che abbiamo imparato a governare, a “danzare”, perché avremo imparato innanzitutto a conoscerci. Non a caso Platone diceva “conosci te stesso”… perché il viaggio più difficile è davvero quello all’interno della nostra mente! E lo è per un motivo “strutturale”, perché soggetto e oggetto coincidono: con la mia mente cerco di capire la mia stessa mente. Come uscirne dunque? Attraverso gli altri, che ci fanno da specchio nel contesto sociale, unica dimensione in cui l’essere umano può vivere ed evolversi. Quello che dunque occorre a monte, per cogliere nel cambiamento un’opportunità e non una condanna, è da un lato una sorta di “palestra mentale” in cui impariamo a conoscere il nostro funzionamento interno, i nostri meccanismi psichici/mentali, disvelando i molteplici autoinganni che spesso ci accompagnano; dall’altro una LEADERSHIP autentica, perché – restando nella metafora – anche in palestra, con l’aiuto di un personal trainer otteniamo risultati migliori. Ecco, se dovessi dire cosa manca oggi in generale è la leadership! All’apparenza sembrerebbe il contrario, perché abbiamo tantissimi “guru”, tantissimi seduttori… ma di fatto abbiamo pochissimi leader. E questi pochi sono spesso mimetizzati tra la gente comune, veri e propri agenti lievitanti di un cambiamento proveniente “dal basso”. Perché un leader vero è colui che attiva nell’altro il desiderio di migliorare; è colui che desidera far crescere attorno a sé tanti leader, non tanti follower; che desidera essere superato dai suoi “seguaci”, non essere osannato e adorato… quello è un Narciso, che è molto diverso! Credo si stia attivando una sorta di “rivoluzione silenziosa”, tanto vasta quanto invisibile a chi non la sa cogliere (forse perché troppo preso dalla narrazione di sé nel palcoscenico mediatico globale…), fatta di leadership diffusa, tra la gente comune come tra i dipendenti delle aziende. Ma questa “rivoluzione” deve acquisire consapevolezza di sé in ogni suo protagonista e assumere le proprie responsabilità nel palcoscenico pubblico. È giunto il momento di smetterla di cercare il “leader carismatico” cui delegare in toto il nostro sviluppo, salvo poi attribuirgli – in un rito collettivo esorcizzante – la responsabilità di ogni nostro fallimento! Così, per riattivarci e diventare protagonisti del nostro cambiamento (personale e sociale), dovremmo cercare il NOSTRO “maestro”, fonte d’ispirazione, e diventare a nostra volta maestri per altri; sviluppando consapevolezza e autenticità in noi e attivandola, grazie alla nostra testimonianza concreta, negli altri. Come del resto già facciamo (o dovremmo fare) con i nostri figli. In questo libro dunque, troverete certamente alcune (minime) indicazioni pratiche di tipo teorico, su alcuni metodi considerati efficaci per raggiungere lo scopo; ma soprattutto troverete gli “ingredienti” per confezionare autonomamente il vostro personale percorso di cambiamento. Scoprirete il vostro funzionamento interno nel contesto sociale, e imparerete a guidare la vostra mente, trovando quegli “occhiali” che vi permetteranno di cogliere l’opportunità che si cela dietro ad ogni “crisi”, ad ogni passaggio evolutivo.

Come la comunicazione può supportare tutto questo? Come può attivare un circolo virtuoso in cui le persone sono davvero risorse per l’azienda e l’azienda un’opportunità per le persone?
La comunicazione è essenziale, perché il linguaggio - codice simbolico per antonomasia – non solo rappresenta la realtà, ma la COSTRUISCE. I bambini con disturbi del linguaggio, se presi tardivamente rischiano gravi deficit cognitivi… perché è il linguaggio a strutturare la mente e l’intelligenza. L’individuo impara prima a parlare, poi a pensare, non viceversa… ed è proprio la capacità – esclusivamente umana – di comunicare attraverso simboli astratti, ad aver permesso lo scatto evolutivo che ha distinto la nostra specie da tutte le altre, pur vicine, del regno animale. La comunicazione dunque ha un valore costruttivo sul reale, perché trasforma i semplici fatti in “significati”, attribuisce un senso agli eventi all’interno di una cornice diacronica, di un continuum temporale. Gli animali, come i neonati ancora incapaci di parlare, vivono nel “qui/ora”, non sanno collocarsi rispetto al passato né immaginare il futuro… perché ricordo e immaginazione sono “significati” prodotti dalla nostra mente simbolica, cioè da un cervello capace di ragionare in termini astratti; e questa capacità è prodotta dallo sviluppo del linguaggio e di tutte le sue infinite sfumature para e extra verbali. Tornando alla comunicazione dunque, è chiaramente il letto del fiume dentro cui scorre il flusso del cambiamento, la musica che dà senso e sostanza all’interpretazione del ballo. La comunicazione è contemporaneamente forma e sostanza dei processi di comunicazione, dunque va utilizzata con attenzione perché rischia di attivare, tanto quanto di bloccare i processi, in base ad una complessa serie di fattori che interrogano significati, aspettative e motivazioni reciproche di tutti i partecipanti. Un messaggio troppo pressante ad esempio, o troppo distante/immaginifico rispetto alla situazione concreta in cui versa un’azienda, non farà percepire il cambiamento come realistico… ma verrà interpretata come una mossa strumentale del management per trainare i lavoratori a proprio uso e consumo. D’altro canto una comunicazione troppo “timida” o appiattita sulla realtà, non permetterà quello scatto “onirico”, che attiva e guida le energie di un gruppo nel perseguire uno scopo ambizioso e comune. Si tratta sempre di un crinale dunque, su cui bisogna necessariamente imparare a muoversi, come un funambolo in permanente ricerca (dinamica) dell’equilibrio. Nel curare la comunicazione quindi, bisognerebbe sempre, in parallelo, curare l’autenticità delle intenzioni che vi sono a monte e soprattutto il significato collettivo che queste assumono in termini di identità sociale. Non dimentichiamo infatti che ogni individuo ha bisogno, alla base di tutto, di tre cose tra loro correlate: identità, autostima e “chiusura”/coerenza cognitiva interna, cioè capire più o meno cosa accade e i nessi di causa-effetto tra gli eventi. Abbiamo bisogno di un’identità per appartenere ad un gruppo sociale, di autostima per stabilizzare (e flessibilizzare) la nostra identità, di comprensione per relazionarci socialmente, esprimere il nostro parere e posizionarci nel confronto. Ne abbiamo bisogno perché siamo esseri sociali che possono crescere solo attraverso gli altri; in isolamento, in assenza di feedback e confronto, saremmo dementi. E il punto dirimente oggi, nel governo dei processi di influenza sociale (cioè dei processi di cambiamento), è proprio il LINGUAGGIO, l’accordo (dinamico) sul significato comune che attribuiamo ai termini. Prima di ogni confronto, ad esempio, per poter efficacemente dialogare, dovremmo “settare gli orologi” semantici, verificare a priori che per ognuno quel costrutto in discussione abbia quel significato… altrimenti corriamo il rischio di girare a vuoto nel dibattito, parlando ognuno su un livello logico diverso. E questa capacità di padroneggiare il linguaggio e la comunicazione, è oggi resa sempre più difficile non solo dalla superfetazione delle immagini (che non attivano la mente creativa quanto le parole), ma sopra tutto dalla velocità con cui viene richiesta qualsiasi cosa (comprensione inclusa…), con cui viene “preteso” qualsiasi cambiamento, complice la (effimera) facilità e istantaneità del web. La comunicazione quindi, proprio perché protagonista dei processi di cambiamento, è un’arma a doppio taglio: da un lato spinge il processo, attivando immaginazione e motivazione, dall’altro rischia di ostacolarlo, quando la narrazione precorre di troppo la realtà e finisce per divorarla: nel momento in cui ho raccontato il cambiamento che vorrei e questo racconto ha smosso gli animi, ed io ho ottenuto il mio “tornaconto” personale (conferme psichiche, successo, gratificazione, ecc.), per che motivo dovrei faticare per cambiare davvero? In fondo, nell’immaginario mediatico, una cosa narrata è in parte già avvenute, o no? Non per nulla “post-verità” è stata eletta parola dell’anno… Ma poi i nodi, nel lungo periodo, vengono al pettine… e – non si sa perché – nonostante tutto siamo insoddisfatti; nonostante tutto l’azienda non cresce. Manca sempre qualcosa, corriamo come matti ma non sappiamo bene per dove o perché, inventiamo smart-city, smart-house, smart-tutto per ottimizzare il tempo, ma poi non siamo più capaci di utilizzare questo (preziosissimo) tempo per essere felici… Così finiamo per drogarci di lavoro o perderci nei social network, perché abbiamo disimparato l’arte del vivere (cioè del cambiare!) nel contesto reale, nelle relazioni in carne ed ossa. Insomma, l’ho fatta lunga ma alla fine siamo tornati all’inizio dell’intervista… ai tre elementi necessari per guidare il cambiamento, l’automobile del vivere: consapevolezza (dunque autenticità), senso e motivazione. CHI sono, COSA desidero profondamente e PERCHÉ… ovviamente declinato anche al plurale, come gruppo o come azienda. E in tutto ciò, la comunicazione funge da “olio” per il motore, per questo dobbiamo controllarne sistematicamente il livello e la qualità… altrimenti rimaniamo per strada.
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