Alberto Marzetta
In un contesto dominato dalle asimmetrie e dalle distorsioni informative, in un momento in cui la tecnologia pare determinare il modo in cui lavoriamo e stiamo in relazione, lo stakeholder engagement riafferma la centralità delle persone, e del proprio modo di essere, nei processi decisionali e generativi. L'analisi di Alberto Marzetta, partner Amapola società benefit, introdotta dal commento di Sergio Vazzoler.
La nuova direttiva UE sul reporting sostenibile (CRSD) ha riacceso una crescente attenzione delle imprese nei confronti dello stakeholder engagement. In questo articolo di Alberto Marzetta, partner di Amapola, si mettono in fila le caratteristiche, il contesto e, soprattutto, le motivazioni profonde che collocano questa attività in un ambito molto più rilevante rispetto alla semplice dimensione funzionale. Non solo, in un contesto dominato dalle asimmetrie e dalle distorsioni informative e in un momento in cui la tecnologia pare determinare – quasi senza possibilità di appiglio o di messa in dubbio – il modo in cui lavoriamo e stiamo in relazione, lo stakeholder engagement riafferma la centralità delle persone, e del proprio modo di essere, nei processi decisionali e generativi. (Sergio Vazzoler).
Fare stakeholder engagement significa due cose. La prima, pratica, è dotarsi di uno strumento molto potente per compiere delle scelte significative e condivise e, a seguito di queste, impostare progetti efficaci. La seconda, più “alta”, è scegliere una specifica modalità di governance di impresa, esattamente come è scelta di governance incentrare l’agire della propria organizzazione sulla sostenibilità.
Lo stakeholder engagement, ingrediente della cassetta degli attrezzi del comunicatore, va quindi pensato e progettato non tanto e non solo come uno strumento fine a sé stesso da alternare ad altri, ma come una “linea guida” che, necessariamente, porta (e/o deriva) da un cambiamento di mentalità. Dal governo delle interdipendenze con i soggetti con cui siamo in relazione sorge una più strutturata e continuativa capacità di generare valore.
Com’è possibile? Con la facilitazione
La messa a fattor comune di conoscenze, competenze pratiche, esperienze, vissuti ed emozioni – ovvero il terreno di applicazione dello stakeholder engagement - assottiglia, fino quasi ad annullarle, le distanze tra i soggetti in gioco – gli stakeholder. Questi debitamente stimolati, riducono le proprie “negatività emotive”, smorzano le conflittualità e, come conseguenza, alimentano di idee e creatività il processo decisionale, facendosene carico fino alla messa in pratica (se questa è richiesta).
Questi risultati si ottengono adottando tecniche di facilitazione, una metodologia che prende le mosse dalla biosistemica – una psicoterapia moderna che mette al centro il corpo – e dalla comunicazione ecologica – ossia orientata al rispetto dell’”ambiente” dell’altro – per essere poi codificata per le organizzazioni complesse e la gestione del lavoro.
Si tratta di un metodo teorico-pratico per fare gruppo, gestire le complessità, favorire la trasformazione di conflitti e, più in generale, generare una condizione di benessere diffuso.
L’applicazione della facilitazione aiuta a raggiungere risposte in minor tempo e più agevolmente, a trasformare complessità e diversità in ricchezza, a dare spazio a tutte le voci, a sviluppare la capacità di risoluzione creativa dei problemi e il pensiero divergente.
L’attenzione va, allo stesso tempo, agli obiettivi che si intende raggiungere, alle modalità con cui lo si fa e alle persone che sono coinvolte nel processo.
Fare stakeholder engagement
Scegliere lo stakeholder engagement, proprio per le potenzialità che esprime, richiede al soggetto che si apre a questa pratica di “calarsi” in una dinamica in cui la relazione muta. Non è più “solo” analogica e bidirezionale, ma si apre a una struttura molteplice e multiforme in cui interessi che possono (abbastanza spesso) divergere trovano spazio nel medesimo momento e luogo.
Occorre quindi essere pronti all’ascolto e alla fiducia rispetto all’esito del percorso.
È uno sforzo notevole calarsi in questo scenario che non è caratterizzante né delle dinamiche di controllo/leadership “tradizionali”, né di modalità di relazione “alla pari” che smantellano le gerarchie basandosi su valori diversi dal mansionario e dal ruolo.
Per questo motivo lo stakeholder engagement è una modalità di gestione strategica dell’impresa e di presa delle decisioni.
Lo applichiamo sempre in ogni scenario?
Se diventa una modalità di governance… sì, certo. In aiuto viene sempre la facilitazione.
Dato che non sempre è possibile effettuare sessione partecipate, o aprire a un’ampia rete di soggetti le scelte, le diverse tecniche che danno corpo alla facilitazione, “personalizzate” sull’obiettivo da raggiungere, governano i diversi livelli dei processi decisionali.
Ad esempio, le scelte più strategiche e onerose di un piano industriale difficilmente possono essere in toto aperte a tutti gli stakeholder esterni che, come normale sia, non hanno e non possono avere pari responsabilità, competenze e visione complessiva dell’organizzazione rispetto a chi la vive quotidianamente.
Tuttavia, durante le riunioni di un corpo ristretto di stakeholder interni è possibile adottare una serie di pratiche che stimolano la conversazione, consentono l’emersione dei diversi punti di vista, riducono le conflittualità e velocizzano il processo decisionale che si fa condiviso e per progetti duraturi.
Un nuovo modo di intenderci
Lo stakeholder engagement è la dimostrazione “plastica” dell’etimologia di comunicazione, ovvero “mettere in comune”. La disponibilità a usare la “messa in comune” per la generazione del con-senso – cioè del significato condiviso – ha sia un valore “politico”, facendo scelte di campo nella gestione di impresa, sia un valore pedagogico.
In un contesto dominato dalle asimmetrie e dalle distorsioni informative dovute dall’incessante flusso digitale non governato, in un momento in cui la tecnologia pare determinare – quasi senza possibilità di appiglio o di messa in dubbio – il modo in cui lavoriamo e stiamo in relazione, lo stakeholder engagement riafferma la centralità delle persone, e del proprio modo di essere, nei processi decisionali e generativi.
Il tutto mettendo in discussione o, se vogliamo, affermando con forza, le buone regole dell’ascolto e della condivisione spesso annientate da un messaggio su un mezzo digitale e dall’assenza di contatto, anche fisico, vero e proprio.
Specie se agita in uno spazio fisico, “in presenza” diremmo oggi, la pratica dello stakeholder engagement restituisce alla dinamica tra soggetti il senso di comunità nel quale si esiste (singoli od organizzazione complessa) perché in relazione diretta con gli altri, in cui gli altri hanno posizioni divergenti o convergenti, ma non per questo più o meno utili alla nostra causa e obiettivi.
La scelta politica insita nella scelta della pratica dello stakeholder engagement (che trova peraltro casa naturale nella S di ESG) assume i contorni così di una sorta di pedagogia di impresa, grazie alla quale, vivendo la pratica della condivisione di competenze e significati, si re-impara la centralità delle relazioni, degli altri, del fattore umano che, per definizione per chi si occupa di comunicazione, è l’aspetto ultimo e centrale dell’azione quotidiana.
Una centralità in cui la tecnologia può, anzi deve, giocare un ruolo di supporto, ma mai sostituirsi allo stare insieme da cui, da sempre, derivano idee e progetti migliori.