Giovanni Landolfi
Come la scienza ha saputo comunicare negli ultimi due anni, in un contesto di pandemia globale? Questo il tema al centro dell'incontro con l'immunologa Antonella Viola, Direttrice scientifica dell’Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza di Padova, ospite, lo scorso 2 febbraio, di un incontro organizzato dalle Delegazioni FERPI Triveneto, Emilia-Romagna e Campania.
Il 2 febbraio 2022, l’immunologa Antonella Viola, Direttrice scientifica dell’Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza di Padova, è stata ospite delle Delegazioni Triveneto, Emilia-Romagna e Campania di FERPI. Ne è nata un’ampia intervista che ha toccato i temi del funzionamento della comunicazione e dei social durante la pandemia, dell’atteggiamento dei media verso l’informazione scientifica, del ruolo degli scienziati nella società e della società polarizzata nella gestione dell’emergenza Covid-19.
Dal suo punto di vista di scienziata, cosa non ha funzionato nella comunicazione durante la pandemia?
Nella comunicazione sulla pandemia è mancato soprattutto il riconoscimento della professionalità. Giornali e tv avrebbero dovuto affidare l’informazione ai giornalisti scientifici, che sarebbero stati in grado di distinguere tra le diverse specialità mediche e scientifiche. Invece c’è stato un approccio generalista, in cui sono state poste a tutti le stesse domande e questo ha fatto sì che tutti venissero classificati come virologi e quindi tutti riconosciuti come esperti di tutto, quando invece ognuno può parlare soltanto basandosi sulla propria specifica specializzazione, altrimenti sarà per forza di cose più approssimativo. È anche per questo che sono emersi i contrasti tra gli esperti. Eppure, vi posso assicurare che le mie posizioni sono identiche a quelle di altri immunologi, come per esempio Abrignani o Locatelli, mentre chi ha un’altra specializzazione può avere posizioni più distanti. Se si fosse fatta più attenzione a porre le domande giuste alle persone giuste, credo che il livello di confusione e diffidenza sarebbe stato inferiore. E poi c’è stato indubbiamente un eccesso di protagonismo da parte degli esperti, mentre i media hanno enfatizzato le posizioni no-vax per fare ascolti.
Come ha vissuto la sua esposizione mediatica?
Ho iniziato a essere interpellata da giornali e tv due anni fa, all’inizio della pandemia. Ho fatto fatica, specie all’inizio. Allora accettavo tutte le richieste, poi però mi sono fatta guidare da una persona esperta di comunicazione, che mi aiuta a selezionare le richieste di intervento e con il tempo ho imparato a interagire con i media. Riconosco però che all’inizio mi ponevo in maniera molto rigida: sono una scienziata, quindi parlo soltanto di scienza. Poi però mi sono resa conto della deformazione culturale che mi voleva relegata nell’angolino del laboratorio. Il mondo della cultura italiana è figlio della riforma Gentile, secondo cui l’élite viene dagli studi classici, mentre gli esperti scientifici hanno un ruolo prettamente tecnico. Ma io, mi sono detta, non sono forse un’intellettuale? Non ho un diritto di parola e una responsabilità che vanno al di là dei dati di laboratorio, per consentire a chi mi ascolta di farsi un’idea più completa dei problemi di cui parliamo? Allora ho cambiato atteggiamento. Mi sono detta che dovevo portare le mie competenze e la mia visione del mondo in questo dibattito. Ho fatto una scelta di campo: ritengo di avere cose da dire e di non sottrarmi, perché ho pari dignità rispetto al collega filosofo e posso assumere posizioni anche sul piano culturale e politico. Se noi esperti lo avessimo fatto prima, forse la pandemia sarebbe stata affrontata in modo diverso. È ovvio che devo chiarire che quando parlo di politica o di politica sanitaria esprimo opinioni personali, mentre quando parlo di scienza allora no, quello che dico è la voce della scienza.
Qual è il suo rapporto con i social media?
I social sono molto time consuming e questo è un grosso limite. Inoltre, in molti casi costringono a esprimersi in maniera estremamente succinta e questo non è possibile per trattare in maniera corretta i temi scientifici. Io tengo molto a poter spiegare bene gli argomenti che affronto, per questo ho scelto di usare soprattutto Facebook, che perché mi dà l’opportunità di argomentare in maniera completa. Per un periodo ho fatto anche dei lanci su Twitter, grazie a una persona che mi affianca per la comunicazione social, ma poi ho abbandonato questo canale. Del resto, i giovani non si accostano alla scienza via Instagram o Tik Tok, ma attraverso YouTube o grazie a esperti che usano il loro linguaggio. Non sono una divulgatrice scientifica, anche se mi sono assunta in parte questo ruolo in aggiunta al mio lavoro di ricercatrice, ma per farlo ho dovuto sacrificare la famiglia e il tempo libero. Ci sono stati periodi veramente difficili, soprattutto nella fase acuta della pandemia: per prepararsi per un intervento in tv occorreva leggere gli articoli scientifici – e in alcuni casi ne uscivano anche più di uno al giorno – e poi analizzarli e commentarli con i colleghi. Qualche volta ci voleva un’intera giornata.
Come affronta le posizioni no-vax quando partecipa ai talk televisivi?
Semplicemente, non accetto di partecipare quando ci sono controparti che sostengono posizioni antiscientifiche. E nemmeno assecondo lo scontro tra esperti. Io partecipo in veste di rappresentante della comunità scientifica, quindi non accetto di andare in trasmissione se ho una posizione non allineata con la comunità scientifica.
Che idea si è fatta delle posizioni antivaccini?
C’è un ampio ventaglio di posizioni, a partire dai dubbiosi. Io ricevo ogni giorno quasi 300 e-mail con le domande le più strane: vuol dire che le persone non hanno ricevuto risposte dai loro medici. Che, del resto, non sono sempre preparati sui vaccini. Per questo, abbiamo fatto molta formazione ai medici sui nuovi vaccini e su come funzionano. Le posizioni no-vax invece diventano identitarie e quindi non negoziabili. Ma è interessante il caso del Portogallo. Ci siamo chiesti perché lì siano riusciti a raggiungere rapidamente un tasso molto elevato di vaccinati. Ne ho parlato con i colleghi portoghesi e abbiamo analizzato la situazione da diversi punti di vista. Sugli aspetti logistici, per esempio, è emerso che loro hanno affidato la gestione dell’emergenza a un generale, ma anche noi lo abbiamo fatto. Però, andando a fondo, abbiamo capito che la campagna vaccinale ha avuto successo perché in Portogallo non ci sono posizioni estremiste: la maggioranza dei cittadini è moderata e ha fiducia verso le istituzioni e la propria comunità e non c’è una forte polarizzazione politica. Questi elementi hanno giocato un ruolo fortissimo sia sull’accettazione dei vaccini sia sul Green Pass: è il substrato politico del Paese a fare la differenza. In Italia, la forte polarizzazione ha fatto sì che anche lo scienziato è stato politicizzato, non è più visto come una figura neutrale.
Come si pone rispetto al dibattito sulla cadenza dei report sul Covid?
Ritengo che sia stato fatto un grosso errore di comunicazione enfatizzando il numero dei malati e il numero dei morti. È vero che era necessario responsabilizzare le persone, però c’è modo e modo per farlo. Dobbiamo avere presente che parliamo sia allo scettico sia ai fragili, come gli anziani. Occorreva cercare un equilibrio tra responsabilizzazione e corretta informazione, senza generare il panico e dando la sensazione che qualcuno si stesse occupando della cosa. La comunicazione eccessiva e i toni angoscianti non hanno aiutato. Oltre al fatto che le informazioni sono incomplete: oggi, per esempio, ci interessa di più la situazione dei contagi, ma il pubblico non ha gli strumenti per valutare correttamente le informazioni. A mio parere, e sono stata criticata per questo, andrebbe ridotto il sovraccarico di informazioni perché genera confusione e non aiuta a farci tornare alla normalità. Comunicare la variazione giornaliera dal punto di vista epidemiologico non ha significato, oramai lo sanno tutti, servono uno o due settimane per avere dati attendibili. Peraltro, non c’è nessuna censura, perché le informazioni dettagliate continuano a essere accessibili sui siti ad hoc: semplicemente non è utile darli in pasto a tutti. Dovremmo semplicemente iniziare a parlarne di meno.
Una volta finita la pandemia secondo lei cosa ne sarà del capitale mediatico che si è attivato in questi anni?
Credo che dovremo fare tesoro di questa esperienza. Tutti noi siamo diventati anche un po’ divulgatori e ci siamo messi al servizio dell’informazione al grande pubblico. Oltre a partecipare ai talk show televisivi, oggi faccio l’editorialista per La Stampa e questo del giornalismo era uno dei miei sogni da bambina. Ma sono anche entrata nel Consiglio di amministrazione di Feltrinelli come responsabile dell’editoria scientifica: abbiamo ancora molte sfide davanti, come l’ambiente, la resistenza agli antibiotici, e avremo altre pandemie, per questo dovremo poter sfruttare al meglio tutte le risorse che sono state attivate fino a oggi.