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Dietro lo "scoop" il memorabile "PR disaster" del Principe Andrea

25/06/2024

Fabrizio Vignati (*)

Quando a gestire la comunicazione sono “non professionisti”, il disastro reputazionale è dietro l’angolo. La riflessione di Fabrizio Vignati a partire da "Scoop", il film sulla storia della controversa amicizia tra il Principe Andrea e Jeffrey Epstein.

In queste settimane, sono molti ad aver visto “Scoop”, il film – diretto da Philip Martin e distribuito da Netflix (qui il trailer: https://youtu.be/cZcHc3zEEoc?si=VRhkBNbkhPQ8rdX0) – che racconta la storia (vera) di Sam McAlister, la giornalista della BBC che è riuscita a ottenere un’intervista esclusiva al Principe Andrea sulla sua controversa amicizia con Jeffrey Epstein, il finanziere statunitense arrestato nel luglio 2019, con l’accusa di abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni, e morto suicida in carcere il mese successivo. Un’intervista (la versione integrale si trova qui: https://youtu.be/QtBS8COhhhM?si=FMetyZMrKXgU_0cy) che – per le molte reticenze, l’autoreferenzialità delle risposte e l’imbarazzo dimostrato dal principe – ha scatenato reazioni negative nel pubblico e nei media ed è costata al duca di York la rinuncia – pochi giorni dopo – a tutti gli incarichi reali.

I fatti sono noti. Andrew – terzogenito della regina Elisabetta – grazie all’amicizia dei tempi dell’università con Ghislaine Maxwell, la compagna di Epstein, negli anni ‘90 inizia a frequentare le feste e le dimore del controverso finanziere: proprio lì nel 2001 avrebbe avuto – il condizionale è la chiave di tutta la vicenda – tre incontri sessuali con Virginia Roberts Giuffre, all’epoca diciassettenne. Sebbene il fratello minore dell’attuale re Carlo III abbia sempre negato di avere mai incontrato la ragazza, una foto compromettente, che lo ritrae con un braccio attorno alla vita di lei, è stata sufficiente per costringerlo – nel 2022 – ad un accordo informale da 14 milioni di euro per evitare un processo il cui solo annuncio gli era già costato la revoca dei suoi titoli reali e dei gradi militari.

Basato sul libro-intervista Scoops. Behind the Scenes of the BBC's Most Shocking Interviews (Oneworld, 2022) della stessa Sam McAlister, il film segue passo passo la strategia di negoziazione (qui una sintesi dell’autrice: https://youtu.be/I88aZvrqNmM?si=iyg0RX5O6GDfr_g-) – tanto abile quanto unilaterale – per ottenere quei famosi 58 minuti di intervista registrati a Buckingham Palace e andati in onda il 16 novembre 2019 su “Newsnight”, il seguitissimo programma serale dell’emittente inglese.

A chi si occupa di relazioni pubbliche, però, non interessa tanto l’abilità negoziale della McAlister (oggi ha lasciato la BBC e insegna tecniche di negoziazione alla London School of Economics) o la magistrale conduzione dell’intervista da parte di Emily Maitlis (brillantemente interpretata nel film da Gillian Anderson, la famosa agente Scully di X-Files e una convincente Margaret Thatcher in The Crown). Per capire perché questa intervista si sia rivelata uno dei peggiori “PR disaster” (il copyright è di Buckingham Palace) della storia recente, va analizzato il ruolo di Amanda Thirsk – la segretaria personale del principe che conduce (ma dovremmo dire “subisce”) la negoziazione informale con la McAlister – e, soprattutto, di Jason Stein: il consulente ingaggiato da Andrea nel settembre 2019 come “communications secretary” per gestire le media relations dopo l’arresto e il suicidio di Epstein, che – dopo una breve parentesi come advisor del primo ministro Liz Truss – oggi ricopre il ruolo di Managing Director di FGS Global, la decima società di relazioni pubbliche al mondo per fatturato.

Quella proposta da Stein, infatti, è la classica – forse noiosa, ma tecnicamente impeccabile – strategia di crisis communication per leader, top manager e celebrity. Basata su tempi lunghi ("There's no quick fix to a story like this", ribadisce senza mezzi termini al principe in una delle prime scene del film) e su una serie di incontri informali a carattere relazionale (“off-the-record tea”) con alcuni giornalisti della carta stampata particolarmente affidabili (“friendly journalists”) mira a restaurare la reputazione del duca di York promuovendo alcune uscite di qualità sulle attività benefiche da lui promosse. La strategia, però, richiede una decisa inversione di rotta rispetto al passato e – soprattutto – la gestione centralizzata nelle mani del professionista di media relations di tutte le attività di comunicazione: “My instinct is that you haven't had the right strategy. Epstein and the whole 'playboy Prince' thing should've been put to bed a long time ago – and I can make it go away. But you have to let me control it”.

Quando, infatti, Stein scopre la trattativa parallela della segretaria con Sam McAlister, le chiede – preoccupato – se almeno ha posto alcune condizioni prima di concedere l’intervista: “Conditions, Amanda? You discussed conditions?”. Di fronte al suo candido diniego, palesa tutto il suo sconcerto (“Oh my god”) e rassegna immediatamente le sue dimissioni dall’incarico: “I can't do this. I'm out”.

Al di là della ricostruzione cinematografica, cosa ci insegna questo caso? Da un lato c’è la soluzione apparentemente facile e liberatoria (nel suo libro Sam McAlister racconta come dopo l’intervista il principe fosse particolarmente esuberante (“ebullient”) e soddisfatto) – ma estremamente pericolosa – di un’intervista televisiva con un giornalista (preconcetto, se non apertamente ostile) e senza avere negoziato domande, temi da evitare, tempi, etc., nella quale l’intervistato pensa di poter raccontare liberamente (e impunemente) la “sua” verità. Dall’altro si contrappone un lento ma incessante percorso di reputation management, basato sulla progressiva modifica della percezione dell’opinione pubblica grazie al ricorso a mass media meno “emotivi” come la carta stampata (in ogni caso destinata ad essere ripresa da tv e social network), alla diffusione di tematiche positive alternative alla issue in questione e – in caso di intervento diretto sul tema – prediligendo messaggi chiari e univoci e mostrando empatia (fino alle scuse per l’imbarazzo creato) pur senza ammettere responsabilità dirette.

Ma, si sa, quando a gestire la comunicazione sono – anche in buona fede – “non professionisti” come segretarie e altre figure organizzative, il disastro reputazionale è dietro l’angolo. E i giornalisti ringraziano per lo scoop.




(*) Fondatore di RepCom, Consigliere Nazionale FERPI e professore di Relazioni pubbliche

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