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Pandoro gate: il crepuscolo dei digital influencer?

16/01/2024

Fabrizio Vignati

Da un mese in primo piano sui media internazionali, il caso dei pandori Balocco e della sanzione dell'Antitrust a Chiara Ferragni non sembra veder scemare l'interesse che ha suscitato, soprattutto tra i professionisti della comunicazione. Anche per gli scenari che sembra aprire sulle sorti degli influencer. Il commento di Fabrizio Vignati.

Chiara Ferragni. Da un mese tra i comunicatori non si parla d’altro: i pandori Balocco “griffati Ferragni” con sovrapprezzo del 150%, la comunicazione che confonde incestuosamente marketing e charity, la Lucarelli che solleva il caso e l’Antitrust che sanziona la social influencer con un milione di euro per “pratica commerciale scorretta”. La Ferragni si scusa con una story su Instagram: se lacrime, cachemirino grigio e il derubricare la crisi a mero “errore di comunicazione” sono un autogol, la donazione “riparatrice” da un milione di euro sembra convincere molti follower. Da lì, però, le cose precipitano: emergono altri scandali simili (prima le uova di Pasqua, poi una bambola), il Codacons presenta esposti e annuncia class action, la Procura di Milano apre un fascicolo a suo carico per “truffa aggravata” e, infine, le aziende di cui è testimonial prendono le distanze (Safilo interrompe il contratto, Monnalisa lo sta valutando e Coca Cola annulla uno spot pubblicitario).

I social intanto si scatenano: su Instagram in un mese la Ferragni perde 210mila follower (su 29,5 milioni sono solo lo 0,7%, ma c’è chi fa notare che sono gli utenti più attivi da un punto di vista commerciale), nelle conversazioni il sentiment positivo crolla dal 59% al 24% e si registra un calo del 71% nelle interaction (fonte: SocialData).

All’inizio, pur tra le critiche per la story lacrimevole, sembrava che un cospicuo risarcimento economico sarebbe stato un gesto sufficiente per placare gli animi, ma – in presenza di altri casi analoghi – appare evidente che è stata sottovalutata la portata della crisi. Come ha fatto notare Daniele Chieffi, quando a luglio l’Antitrust ha acceso un faro su di lei, è stato un errore non iniziare a impostare un serio crisis management e, contemporaneamente, non si è preso in considerazione che la sovraesposizione mediatica della ditta “Ferragnez” e, soprattutto, la scarsa neutralità di certe loro posizioni “politiche” non avrebbero certo giovato in caso di crisi: in questa chiave vanno lette sia le “frecciatine” da parte del Presidente del Consiglio sia i 120mila follower persi su Instagram da Fedez, che aveva scelto – ancora una volta – la via polemica.

Lasciando il reputation management di Chiara Ferragni & C. alla prestigiosa società di relazioni pubbliche che la segue (interessante notare che – in caso di crisi – i social influencer necessitano di una strategia phygital e non certo solo digital), vale la pena di chiedersi se questo caso (italiano) segnerà l’inizio della fine del fenomeno degli influencer digitali: in questi giorni è tornata a circolare un’intervista a Seth Godin del 2021 che profetizzava la fine degli influencer e alcuni pubblicitari – probabilmente consci delle derive del fenomeno soprattutto nel loro settore – hanno iniziato a dire che gli influencer sono marginali, essendo solo un elemento della strategia di comunicazione e non certo chi questa strategia la progetta e la mette in atto.

Dal punto di vista delle relazioni pubbliche, invece, sappiamo bene come gli influencer – soggetti che, pur non essendo necessariamente consapevoli e neppure particolarmente interessati alla relazione con l'organizzazione, ma da questa ritenuti in grado di influire sul raggiungimento dei propri obiettivi, orientando le variabili e le opinioni dei suoi pubblici (Muzi Falconi) – sono un elemento fondamentale nella pianificazione strategica di una campagna di comunicazione relazionale: si tratti di influencer classici (giornalisti, opinionisti, esponenti istituzionali, esperti, etc.) o – più spesso oggi – di blogger e digital influencer. Non solo. Spesso gli influencer strategici nella nostra professione non sono quelli seguiti da milioni di follower, ma soprattutto coloro che hanno una audience di qualità: “micro-influencer” da 1000 a 100mila follower, maggiormente profilabili, più facilmente contattabili e molto meno onerosi da ingaggiare.

Tuttavia, prima di celebrare il funerale agli influencer – soprattutto i ragazzi della Gen-Z, pur inflessibili dal punto di vista etico (e il fenomeno del “deinfluencing” è lì a dimostrarlo), non credo siano così disponibili a rinunciare a queste figure ormai entrate nel loro immaginario comunicativo – forse vale la pena di segnalare qualche dato positivo di tutta la vicenda. La settimana scorsa, infatti, l'AGCOM ha stabilito una serie di norme restrittive per i social influencer con almeno un milione di follower (i loro post dovranno riportare “una scritta che evidenzi la natura pubblicitaria del contenuto in modo prontamente e immediatamente riconoscibile”, con sanzioni da 10 a 250mila euro per i trasgressori) e ha lanciato un tavolo tecnico per disciplinare ulteriormente il settore: l’AICDC (Associazione Italiana Content & Digital Creators) ha già garantito la sua partecipazione e ha chiesto di coinvolgere anche le piattaforme. Zuckerberg, Musk & C. sono avvisati.

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