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La comunicazione cattiva. Alberto Abruzzese sul Manifesto di martedì commenta il pamphlet 'Contro la

14/04/2004
La comunicazione cattivaAlcune considerazioni in merito al saggio del filosofo Mario Perniola «Contro la comunicazione», recentemente pubblicato da Einaudi. Lo scrittore si scaglia contro i mass media, «nemici» tout court della conoscenza. Unica salvezza, rifugiarsi tra le braccia dell'esteticaALBERTO ABRUZZESEVeri contraddittoriAltro luogo comune è quello di contrapporre alla spazzatura televisiva qualità culturali alternative non meglio identificate se non sulla base delle loro dichiarazioni anti-televisive. I più accorti hanno cominciato ad abbandonare questo paradigma. Sentono il bisogno di contrapposizioni più «ferrate». Ma la gravità della situazione basta a farci praticare - anche solo a livello polemico, militante, se non teorico - la risoluta distinzione tra una comunicazione cattiva, quella incardinata nell'economia politica dei media (e dunque data per comunicazione in sé e per sé), e una comunicazione tanto buona da rifiutarsi di essere definita comunicazione, tanto diversa da rivendicare l'esclusivo privilegio di appartenere ad una economia simbolica? L'urgenza di un intervento basta a far dire ai più audaci sostenitori del primato intellettuale sul mondo che non hanno torto le società tradizionali ad opporsi alla colonizzazione mediatica? Chi sostiene questo ha forse il merito di imboccare il grande tema sulla necessità o meno di «nuove élite» in grado di affrontare i mutamenti della società di massa versus le società post-industriali e di farlo avendo in mente il linguaggio invece che la politica. Ma a mio avviso imbocca la strada sbagliata.Quando, incrociandosi con le tesi di Jean Baudrillard sullo scambio simbolico e sui simulacri come zone emergenti dalla società post-moderna e dai suoi punti di catastrofe, Mario Perniola cominciò a svilupparne in modo assai originale il discorso sino a offrire contributi per me fondamentali - e tali apparvero alla esigua comunità scientifica in cui più o meno mi riconosco e alle avanguardie di studenti anti-tradizionalisti cioè «colti» ma «televisivi» con cui in quegli anni ci si poteva incontrare - non avrei mai pensato di ritrovarmi a polemizzare oggi sul frutto estremo del lavoro di un filosofo così costantemente attento al presente, così aperto alla discussione, così poco accademico. È vero, in questi anni non sono state rare le prese di posizione contro chi si occupa di comunicazione. Tuttavia non ho mai creduto utile intervenire su quelle che più grondavano di spirito sapienziale o peggio universitario. Se proprio si vuole parlare davvero di «corsi di scienze della comunicazione», bisogna mettere in discussione assai più di un indirizzo di studio o di formazione, molto più di un grappolo di discipline. Bisogna dunque avere il coraggio di ritenere dissol(u)to non un solo settore degli apparati accademici umanistici ma l'intero istituto universitario e bisogna farlo a partire dai suoi fondamenti nonché da chi ne ha avuto e continua ad averne, me compreso, la responsabilità: dotti, professionisti, amministratori, imprenditori, politici. Il meglio dunque delle etichette di cui la modernità dispone e di cui in tutto o in parte si ritengono comunque depositari e sorveglianti assoluti, guarda caso, proprio i detrattori delle «scienze della comunicazione».Intorno all'animositàMa la recente uscita di Perniola - Contro la comunicazione, Einaudi, 2004 (euro 7) - non merita il silenzio. Si tratta di un intervento come sempre animato; penso in particolare alla arguzia dei suoi precedenti saggi sul sex appeal dell'inorganico, intuizione benjaminiana ancora intramontabile, e sul sentire, tutti tematicamente e teoricamente non poco vicini a questo suo ultimo. Ma, diversamente dagli altri, è un saggio anche animoso nel senso di ostile e, in alcuni suoi risvolti, persino privo di stile, in quanto senza controllo nei confronti dello straniero, poco ospitale. Il mio quindi non è un giudizio di qualità ma solo una constatazione, un riconoscimento. Il saggio non merita il silenzio. Ma in nome di chi? C'è un altro «chi» a cui si rivolge che non sia il «soggetto moderno» di sempre? A rispondergli non dovrebbe essere un mediologo come me o qualche semiologo particolarmente ferito dalle generalizzazioni a cui il libro ricorre, ma quella soggettività non sapienziale che nelle piattaforme espressive dei media abitano con una trasversalità in tutto analoga alle culture estetiche ma da esse divergente. Se non altro per il fatto di esprimersi con linguaggi diversi da quelli miei e di Perniola. Con linguaggi in cui andrebbe semmai verificato se sia presente o meno la stessa volontà di «sintesi» che anima il progetto estetico di questo filosofo e forse della filosofia in genere. Per dirla alla McLuhan, le tesi di Perniola non andrebbero affrontate sul territorio di una cultura alfabetica. E tuttavia non meritano il silenzio in base a un principio che l'autore dovrebbe apprezzare, l'onore delle armi: uno tra i valori che egli stesso assegna alla tradizione estetica. Ci si può fare avanti in nome di questo sentimento - o habitus - per quanto lungo l'arco dei temi trattati, Perniola non si riferisca mai ai nemici da affrontare in una regolare disputa, limitandosi a evocare solo testimoni: Umberto Eco ad esempio, noto responsabile, peraltro, dei corsi di scienze della comunicazione e dei loro attuali quadri dirigenti, i più in vista. Insomma personaggi autorevoli perché ritenuti distanti dalla collina del disonore su cui vanno pullulando miriadi di antagonisti senza nome, tutti uguali (contro i quali si può sparare senza paura di sbagliare, come fanno alcuni messaggi pubblicitari).Figure estremeTroppa acredine? Tra le doti estetiche di cui ho detto sopra, Perniola annovera anche qualcosa di vicino all'ironia e quindi mi perdoni se scherzo un poco con lui. Se ne potrebbe adontare, ma, credo, solo se mi ritenesse non abbastanza comunicatore, cioè non interamente indegno dell'onore di una sua privata reazione emotiva, o non abbastanza filosofo dell'estetica, cioè non interamente degno dell'onore di una sua esplicita critica. Per quanto mi riguarda, nel leggere queste sue pagine contro la comunicazione - senza lasciarmi turbare da quelle che mi sembrano più astruse (ma anche più irrilevanti) e immergendomi invece nella gran quantità di sapienti argomentazioni della più parte di esse - mi sono continuamente meravigliato che il suo modo di vedere i fenomeni del presente, invece di «rovesciarsi» nel mio punto di vista o almeno in un punto di vista inatteso per me e per lui insieme, scelga la strada opposta. Mi sono meravigliato, in sintesi, non tanto del fatto che il suo modo di pensare il mondo lo porti a ricollocarlo nella centralità dell'estetica quanto piuttosto che i conflitti espressivi della comunicazione ne vengano espulsi come insignificanti ed anzi aberranti rispetto ad ogni qualità teorica, pratica, politica e persino morale. Il suo giudizio, mi pare, è irrevocabile. Tanto irrevocabile da formulare una dimensione estetica morbida, aperta ed equilibrata in tutto - persino nei suoi eccessi - tranne che a fronte della realtà-finzione mediatica. Tanto filosofico da non cogliere che la formula «interesse disinteressato» - a cui affida il proprio desiderio di effettualità sul mondo a mezzo delle estetiche invece che delle comunicazioni - mette in primo piano proprio il carattere relazionale di ogni atto comunicativo.Gran parte del saggio, per quanto dotato di straordinarie capacità (in particolare la padronanza nel tracciare con rapidi tratti interi percorsi culturali e disciplinari)i, è dunque anche frutto di un risentimento. Motivato? Sembra dettato dalla effettiva paura che alla filosofia siano rubate le cose di cui è tradizionalmente chiamata a occuparsi (e occupare); che poeti, artisti e cultori di estetica siano costretti a farsi «monaci o minorati» (esempi non a caso poco gentili nei confronti di due figure «estreme», ai bordi dell'abisso moderno - alfabetico, nazionalista, militarista - tra l'intelletto senza corpo e il corpo senza intelletto). Peccato, perché, per questa via le estetiche rischiano sempre di usare al peggio sia il «gusto» di Kant sia il «mondo» di Hegel. Eppure c'è un punto in cui Perniola viene allo scoperto e lo fa alla grande: «Tuttavia nel momento in cui la comunicazione pretende di avere il monopolio del mondano e del superficiale, ogni arroccamento in un'idea di profondità intesa come potenza dell'intuizione o intimità dell'anima, è disastroso. Hic Rodhus, hic salta: la posta in gioco è troppo alta. O l'estetica gioca sul terreno dell'effettuale e del positivo, o con lei perisce l'intero orizzonte dei valori simbolici».Qui finalmente si riconosce il percorso dell'autore che molti di noi hanno inteso radicalmente anti-estetico e quindi affiancabile ad un analogo approccio critico nei confronti delle teorie e pratiche correnti nelle scienze della comunicazione. Perché Perniola non ha cominciato il discorso da questa pagina (centosei) del libro, rinunciando a vedere il nemico là dove ci sono soltanto le sue insegne? La sfida «sul terreno dell'effettuale e del positivo» non mi sembra riguardare una peraltro inapplicabile distinzione di campo sui mezzi, ma sui soggetti. Mi attendo davvero che Perniola possa tornare a pensare in questa direzione. L'AUTORE Mario Perniola è professore di estetica all'Università di Roma Tor Vergata. Ha di recente pubblicato presso Einaudi «L'arte e la sua ombra», un libro che propone un riesame critico di alcune tra le più recenti e «perturbanti» tendenze dell'arte (come quelle del realismo psicotico e dell'arte estrema del post-human), nonché dei movimenti culturali che hanno maggiormente ispirato il dibattito critico-estetico di fine `900 (dal postmoderno al cyberpunk fino al pensiero della differenza). Tra i suoi libri, «Il sex appeal dell'inorganico», «Del sentire», «L'estetica del Novecento», «I situazionisti», «Transiti. Filosofia e perversione», «Philosophia sexualis. Saggi su Georges Bataille». Dirige la rivista di estetica e di studi culturali «Ágalma». IL LIBRO Si tratta di un pamphlet contro la comunicazione massmediatica e i suoi effetti deleteri nella cultura, nella politica e nell'arte. Il volume si interroga sulle origini, sui dispositivi e sulla dinamica della comunicazione di massa, individuando un'alternativa a questo tipo di modello comunicativo in un'economia dei beni simbolici che, pur restando vicina ai bisogni, non sia vittima del guadagno immediato e del successo ad ogni costo. «L'estetica - sostiene Perniola - non è solo la più forte alternativa alla comunicazione massmediatica ma anche l'unica possibilità di sottrarre la società occidentale alla follia autodistruttiva»
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