Identità, immagine e reputazione
15/10/2015
Tre concetti apparentemente simili, i cui confini possono apparire sfuocati; identità, immagine e reputazione. Ma cosa significano realmente? Cosa rappresentano per gli stakeholder di un’organizzazione? La riflessione di Toni Muzi Falconi.
Se la memoria non mi inganna, nella pratica delle relazioni pubbliche, il concetto di ‘reputazione’ comincia ad affermarsi alla fine degli anni ottanta del secolo scorso quando i capi della Ketchum (in particolare Ray Kotcher), una della grandi agenzie internazionali, alla ricerca di qualcosa che la differenziasse dai concorrenti tutti inneggianti al concetto di ‘immagine’, si imbatterono in Charles Fombrun, professore della Stern Business School della NYU e insieme decisero di promuovere il concetto di reputazione come termine alternativo. Le due parti però non trovarono la giusta chimica e Fombrun decise di dar vita per conto suo al Reputation Institute, di cui tuttora è Chairman, ma che è comunque diventato il punto di riferimento internazionale e commerciale per questa specializzazione.
Il corpo di conoscenze che nel frattempo si è andato formando ha imparato a distinguere fra identità (le componenti epigenetiche di una organizzazione); l’immagine (la percezione che i pubblici ricevono dalla comunicazione dell’organizzazione) e la reputazione (quello che gli altri dicono ad altri di una organizzazione). Fra queste ultime due appare chiaro come l’organizzazione possa, volendolo, modificare la propria immagine cambiando il timbro della propria comunicazione ma, per cambiare la propria reputazione, debba anche modificare le proprie azioni e comportamenti. Così si è diffusa l’idea che una organizzazione ci metta molto a cambiare la reputazione , ma riesca a perderla in un attimo. In realtà questo è sempre meno vero poiché la velocizzazione continua della connettività digitale contribuisce ad accelerare anche aggiustamenti desiderati nella reputazione di una organizzazione.
Bene. Ma in effetti, se uno ci pensa su, la reputazione di una organizzazione rappresenta anche,
dal punto di vista dei pubblici interessati e consapevoli (stakeholder), una forma - come suggerisce il mio amico studioso americano Craig Carroll - di ‘controllo sociale’ da parte di ‘terzi’: poiché parlarne bene o male, come si può riscontrare ogni giorno, significa indurla a modificare azioni e comportamenti visto che una buona reputazione è sempre più necessaria perché possa raggiungere gli obiettivi perseguiti. In questo contesto il
‘controllo sociale’ esercitato dagli stakeholder diviene, più o meno consapevolmente, una preoccupazione quotidiana per ogni organizzazione, vista la diffusione dei media sia classici e digitali, anche perché i primi in parte crescente tendono a riproporre informazioni e opinioni espresse dai secondi. Possiamo dunque, seppur impropriamente, chiamare ‘ambasciatori’ i soggetti che condividono e supportano e ‘sindacalisti’ quelli che criticano e ritardano. Uso il termine ‘sindacalisti’ ovviamente in senso figurato anche per indurre in loro una pacata riflessione su come sia nel tempo mutabile il loro ruolo, appunto, ‘sociale’.
Gli effetti di questo fenomeno si fanno sentire con relativa immediatezza: basti pensare ai recentissimi e clamorosi casi di Amazon ove le candidature di potenziali collaboratori si sono decimate dopo lo scoppio della polemica pubblica innescata da alcuni suoi lavoratori e ripresa da parte dell’intero sistema internazionale dei media e quello di Volkwagen che ha travolto la fiducia di azionisti, fornitori, distributori e, soprattutto, clienti.
Mi sarebbe molto utile sapere da chi è interessato se questa idea di allineare la reputazione a una forma di ‘controllo sociale’ esterno di una organizzazione abbia senso e, se si, quale ne possano essere le implicazioni per chi fa il mio lavoro. Grazie, comunque agli interessati segnalo anche
questo lavoro di uno studioso italiano.