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Si può fare. Comunicazione responsabile e crisi climatica

06/09/2023

Sergio Vazzoler

Qual è lo stato di salute del dibattito pubblico intorno al tema della crisi climatica? Giudicando dai toni, in alcuni casi strepitati e divisivi e in altri sussurrati e sommersi, è quantomeno cagionevole. Il salto culturale che il cambiamento climatico impone – oggi – va sostenuto e accompagnato. E qui entrano in gioco i professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche, chiamati a mettere in comune domande, dubbi e timori che l’intensità della crisi ambientale comporta e a far emergere idee, storie e soluzioni innovative per farvi fronte. Il commento di Sergio Vazzoler per FERPI.

Crisi climatica e comunicazione: assistiamo e, più o meno consapevolmente, partecipiamo a due tipi assai differenti di dibattito. Entrambi hanno un proprio registro linguistico e narrativo ma soprattutto incidono in maniera opposta su consapevolezza e comportamenti.

Il primo modo di affrontare la comunicazione del clima – mediatizzato, politicizzato e iperbanalizzato – vede riprodursi il solito, stanco cliché che abbiamo già visto all’opera in tanti altri contesti, dalla pandemia alle migrazioni passando per il reddito di cittadinanza e i cui protagonisti si compiacciono nell’alimentare divisione, contrapposizione e conflittualità. In questo tipo di dibattito le parole vengono usate come armi affilate a favore di telecamera, di tweet o di tik tok. E così gli impatti del clima rovente vengono, da un lato, derisi e sbeffeggiati, un atteggiamento che, ahinoi, trova in massimi esponenti dello Stato una rappresentazione istituzionale (“è estate, fa caldo, sai che novità!”) e, d’altro canto, sono innalzati a dimostrazioni plastiche di quel complotto globalista che usa i “talebani del green” e gli euroburocrati contro la sovranità e la prosperità della nazione. In questo tipo di dibattito la parola chiave è “viralità” e riguarda tanto gli strumenti di condivisione utilizzati quanto e soprattutto la natura tossica dei contenuti veicolati. Particolarmente significativo in questo contesto è l’indifferenza verso i segnali deboli, le piccole crepe che si aprono tra gli eco-scettici.

E così, giusto a titolo di esempio, se il Ministro dell’Ambiente, incalzato da una giovane attivista, si commuove pensando al futuro dei suoi nipoti, da un lato viene impallinato dal fuoco amico politico-mediatico di chi vede in quel gesto un intollerabile cedimento verso la causa propugnata dagli “eco-terroristi” e, dall’altro schieramento, quello dell’ambientalismo radicale e politicizzato, viene subito bollato con sarcasmo come esempio di plateale incoerenza tra gesti e azioni. Nessuno spazio per il dubbio, per l’empatia e il confronto, solo certezze e (pre)giudizi possono alimentare questo show.

Ma c’è un altro tipo di dibattito sulla crisi climatica che, seppur sottotraccia e lontano dai riflettori, sta muovendo i suoi passi sempre più rapidamente. È un dibattito assai più interessante del primo perché emerge dalla vita reale di territori, cittadini, imprese e istituzioni locali, mettendo in luce nuove parole e definizioni che servono a inquadrare un fenomeno a cui ci approcciamo con difficoltà crescente proprio per l’intensità e la rapidità con cui si manifesta.

Ecco allora che parlare di “inflazione climatica” ci serve a mettere a fuoco come un meccanismo economico a tutti noto stia assumendo una connotazione precisa. Alluvioni, grandine, incendi non solo fanno schizzare i prezzi dei prodotti ma incidono anche sul trasporto dal luogo di produzione a quello della distribuzione. “Strade e binari interrotti, dissesti improvvisi o temperature troppo alte impongono maggiori sforzi energetici per la conservazione del cibo” chiarisce Mario Resca, presidente di Confimprese (Corriere della Sera, 31/07/2023). E così in mezzo ai tanti schiamazzi sugli scontrini gonfiati che appassionano i dibattiti da ombrellone, dovremmo anche considerare che tra i principali speculatori dei prezzi al consumo c’è proprio la crisi climatica che, appunto, specula sul ritardo con cui tutti noi ci rapportiamo a questo nuovo scenario.

E a proposito di luoghi di produzione, non si possono eludere le nuove sfide in termini di salute e sicurezza, tanto per le imprese quanto per chi lavora accanto ai macchinari in fabbrica, in un cantiere edile, nella cucina di una mensa o nei campi da coltivare. E così in alcuni territori ad alta intensità lavorativa è stata avanzata la richiesta di “cassa integrazione climatica” accanto alla rimodulazione degli orari di lavoro. È il caso della provincia di Cuneo, dove a fine luglio si è arrivati a siglare un protocollo d’intesa tra Confindustria, Ance e sindacati per sensibilizzare le aziende, ad esempio, a ridurre l’attività lavorativa nelle ore più calde e aumentare la frequenza delle pause di recupero. Non solo: per essere pronti in caso di ondate di caldo particolarmente acute, si agisce anche sulla comunicazione di crisi, inviando tempestivamente bollettini meteo per intervenire con maggiore prontezza.

C’è chi ha parlato di accordo storico, chi di primo passo di un lungo percorso in salita. Sta di fatto che se nel nord-ovest c’è chi ha dotato i cantieri edili di frigoriferi, abiti leggeri e fermato i lavori nelle ore più calde (è il caso dell’Opera Srl di Savigliano), nel nord-est a fine agosto c’è stato un abbandono di massa degli operai Electrolux a cui non sono bastate anguria e integratori offerti dall’azienda. Ecco, allora, che tanto i passi avanti quanto gli inciampi nelle politiche di adattamento alla crisi climatica, dimostrano la portata della sfida a livello di responsabilità sociale d’impresa.

A questo proposito, nell’attuale riorganizzazione in termini ESG (Environmental, Social, Governance), le aziende non devono perdere di vista il salto culturale che impone la crisi climatica. Gli indicatori che misurano le prestazioni di sostenibilità aziendale costituiscono un manuale operativo che può diventare davvero utile se e soltanto se si è in grado di trasmettere alla comunità (aziendale e territoriale) un’idea chiara del percorso che occorre seguire, partendo dal ripensamento radicale del modo di produrre, distribuire e consumare. E per farlo occorre tanta e buona comunicazione in grado di mettere in comune domande, dubbi e timori che l’intensità della crisi ambientale comporta con idee, pratiche e soluzioni innovative da sperimentare per farvi fronte.

Ecco perché i professionisti della comunicazione hanno il dovere di fare proprio ed estendere l’appello dei cento scienziati e studiosi ai giornalisti a parlare delle cause della crisi climatica e delle sue soluzioni. Dovremmo davvero tutti quanti evitare di alimentare il dibattito sopra le righe (e sotto i tacchi) di chi cerca solo di generare confusione e conflittualità e, al contrario, dedicarci sempre più intensamente al ruolo di “emersori” per dare voce e spazio a quelle storie, parole e pratiche che colgono la sfida dell’ebollizione globale (come l’ha definita il Segretario Generale delle Nazioni Unite) per ispirare in tutti l’etica della responsabilità ambientale invocata recentemente dal Presidente Mattarella. Ed ecco anche perché, ritornando su un tema che ci sta particolarmente a cuore, a me e a tutta FERPI, ci servirebbe aggiungere un diciottesimo goal all’Agenda 2030 dedicato alla comunicazione responsabile. Abbiamo l’urgenza di mettere in sicurezza una no fly zone dove le parole siano usate per accorciare le distanze tra visioni e vissuti diversi ed imprimere così quella spinta gentile che porti imprese, istituzioni e comunità a trovare un terreno comune dove sperimentare il cambiamento che la crisi climatica ci impone.

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