Federica Zar, Consigliera Nazionale con delega alla Comunicazione
Un uso corretto e consapevole del linguaggio, anche contro gli stereotipi che condizionano l’immaginario sociale.
Già nel 2017, nel Manifesto di Venezia per il rispetto della parità di genere nell’informazione, venne definito come “buona pratica” – riconosciuta nel rapporto Grevio di monitoraggio della Convenzione di Istanbul nel 2020* – l’elenco di 10 punti contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini.
L’ultimo punto, in particolare, impone l’obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitando: espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili; termini fuorvianti come “amore”, “raptus”, “follia”. “gelosia”, “passione”, accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento; l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale o “oggetto del desiderio”.
Esiste poi un uso del femminile considerato svalutativo rispetto al maschile: ad esempio, l’utilizzo de “il” anziché “la” Presidente del Consiglio come legittimazione politica è considerato uno degli strumenti di riproduzione degli stereotipi che condizionano l’immaginario sociale, perché “ciò che non si nomina non esiste”.
La lingua non è neutrale, sebbene le asimmetrie esistano (uomo libero/donna libera, il segretario/la segretaria, operaio/operaia, contadino/contadina…) ma non sempre vengono utilizzate, nonostante il lento cambiamento cui stiamo assistendo (ingegnere/a, sindaco/a, prefetto/a..).
I risultati di un linguaggio sessista, come viene definito, alla fine comportano: testo non coerente, comunicazione non chiara, richiesta di uno sforzo interpretativo, realtà non rappresentata, immaginario distorto, complicità nel ribadire come la presenza maschile e femminile non sia equivalente in termini di autorevolezza.
Se poi analizziamo la rappresentazione di genere nei media, il Global Media Monitoring Project – che dal 1995 monitora il tema in 116 paesi – evidenzia che ci vorranno 67 anni per colmare il divario di genere nei media, dove la presenza delle donne come esperte o come attori della notizia oscilla tra il 12 e il 25%.
Con le stesse finalità e risultati simili, nel 2018 il Financial Times ha introdotto un programma di analisi, “She said he said” per calcolare quante volte nel giornale si dava voce a pareri e opinioni maschili o femminili, dopo aver lanciato il “JanetBot project” che conta le foto di donne e di uomini, consapevole dello squilibrio tutto al maschile.
Nel 2020 uno studio internazionale su genere e media prese la giornata campione del 29 settembre, rilevando rispetto al 2015 questi dati:
Le donne risultavano più presenti nelle notizie relative a Società e Affari Legali, Crimine e Violenza (nella maggior parte come vittime), Politica e Governo e nelle notizie legate all’UE e alla politica internazionale, mentre si notava una quasi invisibilità a livello locale e nazionale.
Ma come vengono presentate le donne nelle notizie? Anche qui ci sono dei dati interessanti:
Il cammino per il rispetto della parità di genere, nell’informazione e nella comunicazione come in altri ambiti, è ancora lungo ma è tracciato e va percorso insieme, donne e uomini, perché anche la sensibilità maschile alle volte può sorprendere, come in questo breve video che vi propongo in conclusione: Preghiera di un uomo
*L’articolo 17 della Convenzione di Istanbul prevede la partecipazione del settore privato e dei mass media all’elaborazione e attuazione di politiche, linee guida e norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza di genere e rafforzare il rispetto della dignità della donna.
Grazie all’Ordine dei Giornalisti della Sicilia, organizzatore del corso di formazione “La narrazione della violenza maschile sulle donne: il ruolo dei media e il lavoro dei giornalisti e delle giornaliste" da cui ho tratto i contenuti per questo articolo, in particolare da:
GiULiA giornaliste – Paola Rizzi
La violenza di genere nell’informazione – Nadia Somma Caiati