Diana Daneluz
Intervista ad Elena Battaglini, Direttore scientifico del progetto PNRR – Green Communities CSR Alta Sabina e componente del comitato scientifico di FERPILab.
L’ingresso in FERPILab, il centro studi di FERPI, è recente per questa studiosa, docente, innovation strategist e community developer, il cui cammino di studio e ricerca applicata, invece, parte da lontano. Attraversa infatti molte progettazioni europee dirette prima come senior scientist della Fondazione Di Vittorio e, ora, come senior transition designer di Felloni Lateral Office, incrocia le strade di tanti altri studiosi-viandanti, con cui ha intrecciato e intreccia scambi generativi e risonanti, come lei ama definirli. Col fine ultimo e comune di facilitare l’innovazione, progettandola per il bene comune. A valle del primo incontro in presenza di FERPILab, lo scorso 6 maggio, questa la conversazione avuta con lei, che vi proponiamo.
Partiamo proprio dalla “fallacia del portiere”. Cosa dovrebbe suggerirci questa immagine?
Quest’immagine si riferisce all’errata valutazione del valore di un doorman, di un portiere di un albergo che, in qualità di metafora, ha l’efficacia di riflettere il nostro mindset e gli errori più generali che compiamo, anche in tema di conflittualità tra uomini e macchine.
Negli anni Ottanta alcuni consulenti consigliarono, a delle grandi catene multinazionali alberghiere, di risparmiare sui costi, e di aumentare i profitti licenziando i portieri, i doormen. Pensavano che, installando delle porte automatiche e girevoli, gli ospiti potessero entrare da soli nei diversi hotel 4 stelle superior, eliminando così la necessità di un portiere.
Sembra logico, no? Questo tipo di advisory, tuttavia, non ha aumentato i profitti delle catene alberghiere-clienti, ma ha avuto l'effetto opposto.
I consulenti, e i manager che li hanno seguiti, sono caduti, cioè, nella cosiddetta “fallacia del portiere”, la doorman fallacy di cui parla Rory Sutherland in un suo volume. Essa consiste nel restringere la funzione di un lavoro (o di un sistema) a una serie di funzioni particolari, separando e ottimizzando solo quelle. Per avvicinarci agli argomenti dell’intervista, si tratta della stessa fallacia in cui incorriamo quando parliamo di mera transizione energetica, invece che di transizione ecologica. Scambiando, cioè, la parte con il tutto e, magari, facendoli confliggere, così come accade nell’oziosa dicotomia intelligenza umana vs l’intelligenza artificiale.
Ritorniamo, per un attimo, all’esempio della fallacia del doorman. In realtà, i portieri non si limitano ad aprire e chiudere le porte degli hotel, ma si occupano anche di tenere pulito l'ingresso principale, accogliere gli ospiti all'arrivo, dare indicazioni fornendo la giusta direzione, scoraggiare il vagabondaggio e i comportamenti illegali, procurare senso di prestigio e un maggiore valore percepito dell’hotel.
In sintesi, quindi, i compiti e le funzioni di un doorman hanno a che fare con aspetti più ampi di quelli su cui i consulenti e gli advisor di cui parlavo avevano posto la loro attenzione.
Dalla “fallacia del portiere” si può dunque trarre un insegnamento che può orientare i nostri comportamenti o delle azioni consulenziali in tempi di crisi complesse: la vera efficienza ed efficacia di un’advisory non sta nel restringere l’attenzione a singoli aspetti dell’economia alberghiera, come in questo caso, oppure a polarità divisive: macchine vs uomo/ intelligenza umana vs artificiale/natura vs cultura. La vera efficienza è legata alla possibilità di espandere i confini del pensiero e ampliare il nostro sguardo, per vedere pattern, modelli, configurazioni di persone, funzioni, comportamenti, su cui poniamo la nostra attenzione, in relazione con sistemi più ampi. Le sfide globali complesse ci richiedono, cioè, di accogliere il valore delle relazioni, in cui singoli enti, singoli stati di relazione, uomo/macchina artificiale/naturale sono soglie, interfacce di relazioni più vaste che oltrepassano gli angusti confini di osservazioni riduzioniste e lineari, al fine di aprirsi al pensiero sistemico e a vere innovazioni. Noi umani, al di là dei nostri specifici ruoli e professionalità siamo, quindi, solo dei doormen, delle soglie/interfacce che possono dare cornici di direzione e senso a delle relazioni, in modo da conformare intelligenze collettive. Anche attraverso degli algoritmi e, come vedremo, attraverso il design generativo.
INNOVAZIONE. Parola talmente abusata come tante di questa lunga fase di “passaggio” e transizione che merita forse una tua puntualizzazione. Ci hai dedicato un libro, uscito per Carocci Editore in una nuova serie, Ambiente e Sfide globali, da te co-diretta, della collana Studi Superiori: “INNOVAZIONE TERRITORIALE. Metodi, tecniche di progettazione, casi di studio”. Cos’è, o cosa dovrebbe essere per te innovazione oggi?
Innovare, innovazione sono attualmente termini pervasivi, pregni tuttavia di quello che gli studiosi chiamano halo effect o effetto alone. Le auto a guida autonoma, ad esempio. Il loro design, in relazione a sensori, componentistica e software, costituisce, nell’immaginario comune, “una” innovazione che, tra il 2016 e il 2019, mediamente, ogni anno, ha catalizzato investimenti del valore di 7,9 miliardi di dollari (fonte McKinsey). Il successo o meno dell'introduzione dei veicoli a guida autonoma non è relativo ad una singola idea innovativa, bensì ad un intero processo che richiede ai produttori di automobili, ai fornitori di tecnologia, alle autorità di regolamentazione, alle amministrazioni cittadine e nazionali, alle società di servizi, nonché agli utenti finali, di collaborare in modi nuovi e di adottare nuovi comportamenti.
Dopo trent’anni di lavoro sul campo, ritengo quindi che l’innovazione sia innanzitutto un processo in cui si decodificano, traducono e implementano delle idee innovative da riconfigurare – con delle adeguate cornici direzione e senso - in relazione ai diversi obiettivi, interessi in gioco di comunità territoriali, di imprese e organizzazioni, portatrici attive di interesse. Come illustra il caso automotive, il successo di un’innovazione dipende dai trade off tra gli stakeholder di un intero processo e da come essa si interfaccia, e si rinegozia, al suo interno.
Il mio volume introduce nel dibattito scientifico italiano l’innovazione sistemica (systems innovation) che si riferisce, dunque, un tipo di innovazione che va oltre la creazione di nuovi prodotti o servizi e si concentra sulla trasformazione di processi più ampi in cui operano tali prodotti o servizi. Questa forma di innovazione si concentra sul ripensare e migliorare un intero processo, piuttosto che limitarsi a migliorare le sue singole componenti. L’innovazione sistemica si basa, e interseca, altre aree disciplinari (il systems thinking, la mappatura sistemica o deep mapping, il transition design e il systems building) integrando e ricombinando idee, tecniche e strumenti diversi. Questa disciplina, ancora poco conosciuta in Italia, deriva dal dibattito scientifico che ruota attorno alla cibernetica, alla teoria dei sistemi e alla teorizzazione della complessità; essa è informata anche da esperienze applicative legate al networking, all’innovazione e allo sviluppo sostenibile sostenibilità che hanno utilizzato tecniche e strumenti propri degli studi sul futuro (future studies).
Radicando i suoi principali concetti e metodi nei quadri teorici della sociologia spazialista, sviluppati assieme ad Alfredo Mela, ordinario di sociologia dell’ambiente e del territorio al Politecnico di Torino, il mio libro propone strumenti e casi di codesign che rielaborano la mia esperienza in tema innovazione ecologica e di facilitazione dell’autorganizzazione di sistemi complessi, anche territoriali.
Una volta hai detto che “i territori non immaginano quanta innovazione latente possono esprimere”. Come aiutarli ad immaginare? La tua esperienza in Alta Sabina cosa insegna?
Il bando PNRR GreenCommunities, che ho avuto il privilegio di progettare accanto a Stefano Micheli, sindaco di Rocca Sinibalda (RI), il capofila del consorzio di scopo formato da dieci comuni dell’Alta Sabina laziale, chiedeva di integrare nove diverse dimensioni della sostenibilità: efficientamento energetico, salvaguardia e sviluppo del patrimonio naturale (aria, acqua, suoli, foreste), turismo e agricoltura sostenibile, patrimonio edilizio e infrastrutture, mobilità e reti, economia circolare, mitigazione e l’adattamento alle crisi climatiche.
I criteri del bando implicavano quindi non una collazione, un mero elenco di interventi, bensì un design di tipo strategico, pensato per infrastrutturare e facilitare innanzitutto delle “relazioni” territoriali e il loro sviluppo futuro. Stiamo lavorando innanzitutto sul potenziale immaginale delle comunità, sulle conoscenze tacite, sul capitale socioterritoriale, sulla fiducia, che rappresenta il più potente antidoto in tempi di crisi complesse.
La progettualità e l’idea di futuro di individui e comunità sono profondamente influenzate dall’immaginazione. Come scrive Arjun Appadurai (2014), valori, norme e credenze sono cruciali sia per interpretare tradizioni, narrazioni o eredità del passato, sia per la costruzione di visioni e scenari che orientino comportamenti, pratiche e azioni nel presente. Assumendo la prospettiva di Appadurai, la visione del futuro ha, quindi, a che fare non con calcoli razionali e prescrittivi ma con l’immaginazione. Questo autore individua infatti proprio nell’immaginazione la “palestra” dell’azione sociale. Forse perché non poteva servirsi di un’adeguata strumentazione teorica e concettuale, Appadurai ha successivamente fatto slittare il piano semantico dell’immaginazione su quello delle aspirazioni sociali. L’aspirazione viene quindi da lui definita come una capacità culturale, di natura collettiva che è socialmente distribuita in maniera diseguale in relazione al set di risorse, di accessibilità e capacitazioni che i un territorio offre.
Le relazioni all'interno di un sistema territoriale riflettono quindi l’identità e i valori incorporati nel sistema stesso. L’innovazione territoriale come systems innovation richiede quindi, in primis, l’osservazione e la comprensione dei pattern, ossia dei modelli relazionali che ne sono alla base. Per questo motivo, la trasformazione di un sistema non è solo una questione afferente a delle sue singole parti o elementi. Si tratta invece di identificare gli schemi esistenti (e di metterli in discussione) non solo nel sistema, ma anche in noi stessi, provando in primis a immaginare, sperimentare e diffondere nuovi modelli. In altre parole, per una “riorganizzazione attiva” di un sistema territoriale è necessario riflettere criticamente sui suoi schemi relazionali ossia su come misuriamo e interpretiamo il valore di una risorsa anche attraverso le aspirazioni e la nostra capacità di immaginare. Il futuro si costruisce su queste basi.
Il design strategico ha quindi declinato i criteri del bando con quindici interventi di cui quattro di sistema: un Patto di Comunità che sperimenterà tecniche di codesign sistemico ancora poco conosciute in Italia. Un Digital Twin, una Piattaforma in blockchain e un wallet in app mobile in cui abitanti e turisti si scambieranno i pagamenti di servizi ecosistemi e trasformeranno quindi degli strumenti economici volontari in modalità pensate per ispessire dei legami comunitari e la sostenibilità integrale dell’intero territorio, attraverso l’immaginazione.
In Alta Sabina, attraverso gli interventi di sistema il Patto di Comunità, il Digital Twin “oracolo” di una piattaforma blockchain, del Wallet comunitario e degli Smart contract, che verranno infrastrutturati, stiamo lavorando, dunque, sulle abilità immaginative della GreenCommunity per costruire traiettorie e scenari condivisi di futuro, libero dai limiti dei sistemi attuali.
Complessivamente, l'applicazione del design generativo nello sviluppo e nell’innovazione territoriale sostenibile offre l'opportunità di ottenere soluzioni conformate ai bisogni delle comunità umane e non umane locali e rispettose degli obiettivi di sviluppo condivisi, contribuendo alla creazione di comunità resilienti, efficienti e un impatto positivo sul benessere e la qualità della vita a più lungo termine. In questa prospettiva il Social Resonance Design System Thinking, il metodo, che è anche un trademark europeo, attraverso cui ho costruito il design del progetto Community Sustainable Resonance in Alta Sabina, può informare gli algoritmi attraverso le regole che le comunità, o le organizzazioni in cui si interviene, si sono date per lo sviluppo e l’innovazione sostenibile, inclusiva e integrata del territorio.
Qual è, in particolare, il ruolo del design generativo e del digital twin progettato in Alta Sabina?
Le decisioni di design generativo, coadiuvate da un digital twin, non sono “automatizzate”; un gemello digitale di un territorio o di un’organizzazione, infatti, non prende decisioni “sostituendo” le sue comunità o le amministrazioni che lo utilizzano, bensì, grazie ai big data e agli algoritmi di machine learning e, in alcuni casi, di machine reasoning “prevede” (si noti che in inglese, predict, non assume le stesse connotazioni deterministiche a cui allude l’uso del termine italiano “predire”) traiettorie e scenari, a supporto delle decisioni. In sostanza, un digital twin è un agente complesso che, come un designer all’interno di percorsi progettuali o di politiche pubbliche, mutualmente apprende “dalle” e “nelle” reti di informazioni e conoscenze, per supportare delle decisioni all’interno delle cornici di direzione e senso date dalle regole pattizie concordate tra team di ricerca e progetto e le comunità in cui si interviene. In questa prospettiva, si può quindi sostenere che un digital twin si configuri come un sistema che interfaccia i bisogni e le domande dei sistemi socioecologici, a cui esso afferisce, con gli spazi di possibilità offerti dai big data e dagli altri ambienti informazionali con cui si misura.
Questo aspetto può essere chiarito alla luce del lavoro di Daniel Kahnemann, vincitore, insieme a Vernon Smith, del Premio Nobel per l'economia nel 2002, per avere integrato i risultati della ricerca psicologica, nelle scienze economiche, specialmente in riferimento al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d'incertezza. Kahnemann (2011, trad. it. 2012), descrive l’effetto framing che riguarda gli impatti delle modalità in cui sono presentate le informazioni nei processi decisionali. In grande sintesi, l’effetto framing spiega come le menti umane ragionino e prendano decisioni attraverso razionalità limitate, basandosi cioè su giudizi intuitivi e valutazioni probabilistiche approssimate e, spesso, scorrette. Gli studi di Kahneman e Tversky, per descrivere questi processi cognitivi, usano i concetti di Sistema 1 e Sistema 2. Il primo è “programmato” per essere veloce, ossia per prendere decisioni automaticamente e con poco sforzo. Il Sistema 2, invece, svolge attività mentali più impegnative, che richiedono cognizioni, conoscenze e processi di apprendimento a monte, così come succede per l’esecuzione di calcoli complessi. A volte il Sistema 2 lavora in background, in modalità a basso sforzo, mentre il primo si attiva velocemente.
Nell’ambito di questo paradigma, Chiriatti (2021) aggiunge un Sistema 0, ossia un’estensione del modello di Kahneman che si pone come un’interfaccia, un intermediario della realtà che “simula” il ragionamento umano, attraverso degli algoritmi che correlando nuove informazioni, permettono di mitigare gli effetti dei bias cognitivi, dei giudizi intuitivi e delle valutazioni probabilistiche approssimate (bias emotivi o cognitivi), che condizionano la correttezza e l’appropriatezza di una decisione. La metafora del Sistema 0 consente dunque di comprendere meglio la capacità predittiva di un digital twin territoriale e della differenza tra prevedere e predeterminare. I digital twin che, come ho illustrato, funzionano in tempo reale, in quanto Sistema 0, o interfaccia-frame delle decisioni umane, può agire in modo “proattivo” sull'intero processo decisionale che un progetto, una strategia di sviluppo e di innovazione territoriale configura.
Anche l’economia è invitata al cambiamento. Civile o sistemica, oppure, come dici tu, non è. Puoi chiarire anche questo tuo pensiero?
Tutti siamo responsabili del cambiamento, compresi gli studiosi e gli operatori afferenti alle discipline economiche e sociali che, insieme alle STEM, sono obbligate a uscire dai loro angusti limiti concettuali e disciplinari. Le trasformazioni che le crisi globali complesse richiedono, non sono solo economiche o sociali o delle hard sciences: sono sistemiche.
I beni comuni e le risorse, ad esempio. Se vogliamo comprendere la natura dei commons e vogliamo sostenerli progettualmente dando senso a parole – oggi – vuote, usate come metafora, se non come mistificazione o manipolazione, dobbiamo lavorare in team interdisciplinari sapendo che sono composti di almeno tre elementi: il patrimonio materiale e immateriale di un territorio; l'esistenza di un ecosistema relazionale ad alta qualità in cui quel patrimonio diventi vera risorsa; il fatto che questo ecosistema relazionale ad alta qualità possa costruire relazioni di fiducia e non di estrazione di valore.
Le crisi complesse che influenzano sistematicamente economie, organizzazioni e comunità - e hanno effetti socioecologici regressivi - richiedono dunque l’innesco, la facilitazione e l’infrastrutturazione di sistemi relazionali ad alta qualità per l’economia civile ed ecosistemica. È questo l’unico antidoto di cui possiamo disporre.
Libri. Sempre con Carocci hai pubblicato “LA SOCIETÀ E LO SPAZIO”, scritto insieme ad Alfredo Mela e Anna Laura Palazzo. Anche qui parti dalla tua formazione e dal tuo percorso di sociologa dell’ambiente e del territorio per individuare un particolare modus di relazione tra società e spazio, anche stavolta al di là, mi pare di capire, del dualismo natura-cultura, ambiente-territorio, urbano-rurale e naturale-artificiale, infine. Verso cosa, invece?
In relazione all’esigenza di interdisciplinarietà, se non di trandisciplinarietà, richiesta dalle sfide globali, mi viene in mente Heinz von Foester, uno dei padri della cibernetica che sosteneva che "Le scienze dure mietono successi perché hanno a che fare con problemi morbidi: le scienze morbide, stentano a procedere perché è a loro che toccano i problemi duri”. Alla luce del volume La società e lo spazio, aggiungo che questi problemi duri che le hard sciences e ancor più le scienze sociali (soft sciences) affrontano, richiedono – entrambe - pensiero critico. Nel volume, appunto, introduciamo questa visione critica e un nuovo paradigma, quello “spazialista”.
Le sfide poste dall’Agenda 2030 sono innanzitutto relazionali e situazionali e richiedono un salto di paradigma. Ho dedicato un intero capitolo, il terzo, ai temi legati alla territorializzazione dei 17 SDGs e dei loro 179 Targets. Gli impatti di crisi complesse, come quelle che stiamo vivendo, sono “territorializzati”, assumono cioè caratteristiche specifiche a seconda delle vocazioni di un territorio. Questo significa che, ad esempio, la crisi climatica si distribuisce, nel mondo, in termini di diseguaglianze, iniquità, marginalità sociale ed economica in modo spesso del tutto differente, in relazione alle caratteristiche di un territorio. Ma questo significa, allo stesso tempo, che anche il cambiamento, la conversione ecologica e digitale è un atto - in primis - territorializzato. Se i rischi climatici dispiegano i loro effetti ovunque, è la caratterizzazione economica, sociale, regolativa politica dei luoghi che determina la magnitudo dei loro impatti. Coglierne le relazioni complesse e circolari tra questi aspetti, per gestirli efficacemente, richiede quindi una consapevolezza “situazionale”, “spazializzata”.
La vita, infatti, si evolve attraverso interazioni combinate: ad esempio, se una specie si estingue, si perdono a livello locale tutte quelle interazioni combinate che caratterizzano quegli specifici ecosistemi in cui essa vive e si sviluppa. La vita conforma cioè relazioni e processi innanzitutto “situati” nello spazio e nel tempo, ed è per questo motivo che impatti e rischi globali sono territorializzati. “Situando”, ossia avendo una “coscienza di luogo”, il tema della sostenibilità e del cambiamento climatico, si può lavorare sui pattern, i modelli, le relazioni complesse, e si può intervenire in tal modo sulla struttura e sulla prevenzione degli impatti, e non a valle.
Introducendo il paradigma spazialista, Il volume affronta il tema del rapporto tra società e spazio, e ne indaga le consonanze con le discipline del territorio, del paesaggio e dell’architettura alla luce di alcuni casi di studio. Tenendo conto di recenti contributi filosofici e scientifici intesi ad incorporare la sfida della transizione ecologica, l’intento è dunque quello di superare il dualismo tra natura e cultura, tra ambiente e territorio e tra urbano e rurale. Il testo parte dall’analisi critica di alcuni assunti propri delle concezioni antropocentriche e riduzioniste della modernità occidentale e giunge a delineare una visione che ridefinisce il sociale in una prospettiva sistemico-relazionale considerando il ruolo attivo, per quanto differenziato, di tutti gli elementi – umani e non umani, naturali ed artificiali - che interagiscono nell’ambiente. In coerenza con questa idea, si formula una proposta di metodo per un lavoro scientifico di impronta sistemica orientato all’interdisciplinarità.
Noi e gli altri, oggi. “Senza l’accettazione della complessità non è possibile la compassione”. Condividi questa citazione?
Accettare la complessità implica la compassione. Sì, sono d’accordo. Tuttavia, la complessità non si può “studiare” sui libri, né “accettare” tout court. Ciò che serve, a mio parere, è la consapevolezza, e il punto prospettico, che solo nuove lenti con cui guardare il mondo possono fornire. Il primo volume della nuova serie Ambiente e sfide globali, fornisce gli strumenti per indossare queste lenti. Il secondo, Innovazione territoriale, scritto immediatamente dopo aver ultimato La Società e lo spazio, illustra invece cosa significa, nella progettazione, indossare queste lenti in termini di tecniche e di logiche sottese a delle progettazioni complesse.
Accettare pienamente la complessità, dalla mia prospettiva, significa quindi pensare attraverso un mindset sistemico - relazionale che implica sostanzialmente essere consapevoli che le relazioni vengano prima dei relati, che non si debbano scambiare singole parti con il tutto, strumenti con dei fini più ampi, perdendo quindi il quadro generale perché ci si concentra troppo su dei dettagli. Secoli di pensiero scientifico lineare, schiacciato esclusivamente sul principio di non-contraddizione e di causa-effetto, ha illuso legioni di scienziati sulle possibilità di studiare un fenomeno riducendolo a delle immagini chiare e distinte di cartesiana memoria. L’osservazione scientifica dei sistemi territoriali, ad esempio, ci induce a considerare un oggetto, una risorsa paesistica “in sé e per sé", sulla base di presunti attributi “oggettivi” e quindi uno strumento, una pratica, una funzione. Al contrario, un oggetto, una risorsa è tale solo in relazione ad altri oggetti, persone o situazioni all’interno di un campo di attività in cui essa è in grado di esercitare un certo effetto: la mente umana non pensa per assoluti. È solo dalle relazioni tra cose che apprendiamo: le informazioni, i dati conoscitivi derivano infatti da differenze, omogeneità, congruenze e, dunque, relazioni.
Plus e limiti del “sociologo”. Cosa porti dietro e cosa lasci della tua formazione di partenza in ciò che fai oggi, soprattutto nel tuo approccio alla relazione umani-macchine, o meglio umani-sistemi di IA?
Nel 1996, ho avuto il privilegio di conseguire il titolo di dottore di ricerca, nell’ambito del primo – e unico – programma di dottorato italiano interdisciplinare di studi ambientali: diritto, economia, geografia e sociologia dell’ambiente e del territorio. Fin dalla mia tesi dottorale, dall’esigenza di integrare diverse prospettive disciplinari, tra cui la sociologia, ho appreso l’importanza del “metodo”. Questo termine, dal greco μέϑοδος (methodos), è composto da μετα (in direzione di, in cerca di) e dal sostantivo ὁδός (strada, cammino), indica cioè le azioni dirette al fine di riarticolare, su un più elevato livello di senso, ciò che è separato. Il cammino che permette il metodo consente cioè di collegare ciò che è disgiunto e di accettare la complessità, facendo leva sugli elementi di incertezza. L'impianto complesso delle ricerche-azione che ho sviluppato successivamente in tema di sistemi adattivi complessi, di sostenibilità delle politiche industriali e di processi governance territoriale multistakeholder e, soprattutto, la necessità di integrare tra loro queste diverse linee di ricerca, hanno approfondito la mia attenzione al metodo e alle logiche sottese della mia cassetta degli attrezzi analitici. Specializzandomi nell’utilizzo di strumenti specifici per infrastrutturare processi complessi, di sviluppo sostenibile come: la network analysis, tecniche come l’EASW (European Awareness Scenario Building Workshop), le consensus-building conferences, l’analisi multicriteria, la contingent valuation, la cultural mapping e, soprattutto, i PPGIS (Public participation geographic information systems) ho appreso, da subito, l’importanza della collaborazione, anzi, direi, dell’interpenetrazione tra sistemi umani e macchine. I sociologi spesso si limitano a comprendere, descrivere e categorizzare i problemi sociali, ma possono, con il potere del design e del pensiero computazionale immaginare nuovi modi di essere e di fare, attraverso l’alleanza tra umani e macchine. Si tratta, come scrive Wright Mills di sfruttare l'abilità dell’immaginazione sociologica per costruire e infrastrutturare un futuro più desiderabile, libero dai limiti dei sistemi attuali.
È una domanda trabocchetto, ma devo fartela. Cosa ti aspetti dalla tua collaborazione con il nostro FERPILab, luogo aperto e internazionale di approfondimento dell’innovazione nell’ambito delle Relazioni Pubbliche e della Comunicazione, e che direzione di lavoro ti senti di indicare per questo specifico ambito professionale in questo specifico momento storico?
Recentemente ho letto che “comunicare oggi significa prima di tutto mettere in scena la propria verità”. Condivido appieno questo aforisma che ritengo non riguardi solo l’etica e l’integrazione personale, ma anche quella delle imprese o delle organizzazioni con cui lavoriamo. Nell’era dell’informazione, satolli come siamo di dati, di notizie e di influencer, la comunicazione è efficace se testimonia una coerenza interna: quel fil rouge che lega prodotti e processi ai valori dell’impresa, al suo purpose e ai mindset organizzativi che esso riflette. I migliori comunicatori, addetti stampa, relatori pubblici, ma anche advisor e innovation strategist come me, devono quindi porsi a fianco, e al servizio, di realtà che sentono la necessità di innovarsi per affrontare adeguatamente le sfide complesse che stiamo vivendo.
Innovare, nella comunicazione, significa quindi questo: lavorare non con operazioni di make-up ma contribuendo a rendere coerenti strutture organizzative, progettualità e purpose per conformare una comunicazione d’impresa efficace.
Ed è essenzialmente questa la prospettiva che orienta la mia collaborazione con gli stimati colleghi di FERPILab.