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Il lobbying civico per promuovere il cambiamento sociale e influenzare le politiche pubbliche

#FERPISideChat

06/11/2023

Giuseppe de Lucia

Nuovo appuntamento con #FERPISideChat. Oggi il nostro ospite è Federico Anghelè, Direttore e Head of Policy della sede italiana di The GoodLobby.

Puoi spiegarci l’obiettivo della vostra organizzazione?  

The Good Lobby è un’organizzazione non profit la cui missione è quella di rendere più democratico e aperto l’accesso al potere. Lo facciamo prevalentemente su due livelli, anche se col passare del tempo le nostre azioni si sono diversificate e moltiplicate. 
Da una parte, aiutiamo gli interessi generali (portati avanti da movimenti sociali, organizzazioni non profit e non governative, gruppi informali, istituzioni filantropiche) a farsi ascoltare da policy maker sempre meno “accoglienti” e disponibili. Prima ancora di offrire loro competenze e capacità, li sproniamo ad agire politicamente, a conquistare uno spazio nella sfera pubblica che buona parte del terzo settore italiano non ha mai avuto. O forse, non ha neppure mai immaginato di dover avere. 
Dall’altra, ci battiamo per migliorare ed estendere le regole del funzionamento democratico, affinché le istituzioni siano più trasparenti e “responsabili”. Da anni ormai chiediamo una regolamentazione del lobbying, ma anche provvedimenti che rendano più integre e inclusive le nostre istituzioni. Siamo in prima linea per contrastare i conflitti di interessi, le porte girevoli, l’opacità del finanziamento alla politica, ma anche per difendere gli attivisti, per moltiplicare gli spazi di partecipazione civica, per migliorare la qualità della nostra democrazia.  

In che modo il “lobbying civico” può sfruttare le potenzialità delle piattaforme digitali e dei social media al fine di coinvolgere un pubblico più ampio?  

Le piattaforme digitali avrebbero tutti i requisiti teorici per essere alleate dei cittadini lobbisti: permettono di raggiungere nuove persone, di parlare a pubblici ampi, di contribuire alla mobilitazione, di “viralizzare” i contenuti, di dialogare o prendere a bersaglio i politici e le istituzioni. Condivisione di contenuti, mailbombing, twitter storm, messaggi diretti sono tutte armi che fanno parte della cassetta degli attrezzi del lobbying civico. Così come il coinvolgimento di influencer che, sempre più spesso, abbracciano cause, informano e mobilitano. Sappiamo tuttavia che questo schema è solo teorico: le istituzioni rispondono poco se non sono addirittura impermeabili alle sollecitazioni esterne anche sui social, generando frustrazione e sfiducia; i social media tendono a privilegiare contenuti sponsorizzati, costituendo di fatto una barriera d’ingresso per la circolazione delle proposte e delle proteste degli attivisti; ma le azioni e le mobilitazioni online non sono considerate sufficienti neppure dagli stessi cittadini attivi, alla ricerca di relazioni più solide con i loro pari. Il digitale è quindi un facilitatore e un moltiplicatore ma non è la condizione sufficiente per andare a segno con un’iniziativa di lobbying civico.  

In un contesto che vede la crisi dei partiti tradizionali che ha creato un vuoto nell’accesso al potere da parte dei cittadini, qual è il ruolo del lobbying civico? In che modo si possono influenzare i decisori politici?  

La crisi dei partiti è più generalmente la crisi dei corpi intermedi novecenteschi: se da una parte le forze politiche non rappresentano più organi di elaborazione politica in grado di tracciare linee ideali e programmatiche a medio-lungo termine, la fiducia verso sindacati, associazioni di categoria, organizzazioni non profit “storiche” si è fortemente ridimensionata.  
Nell’epoca della disintermediazione politica, il lobbying civico vuole contribuire a colmare un gap di rappresentanza ed essere uno strumento per avvicinare tante istanze dimenticate, messe ai margini, non valorizzate dalle istituzioni. Ormai da alcuni anni supportiamo la galassia di comitati e organizzazioni che si battono per il diritto di voto fuori sede, garantito da quasi tutti i Paesi europei Italia esclusa. Si tratta di quasi 5 milioni di persone, soprattutto giovani, prevalentemente del Mezzogiorno. Abbiamo contribuito a “organizzare” un interesse che, pur rappresentando una porzione tutt’altro che irrilevante del nostro elettorato giovanile, sarebbe rimasto inespresso, privo di rappresentanza. I cittadini lobbisti non sono eroi, non sono monadi indipendenti: sono semmai aggregatori che si battono per far emergere punti di vista rilevanti ma trascurati dalla politica. Saper coagulare, creare alleanze è un requisito per farsi ascoltare dai decisori pubblici: la capacità di rappresentare istanze condivise e farlo attraverso “evidenze”, contribuiscono a essere presi in considerazione dai policy maker. Ma poi bisogna anche saper essere tempestivi, agire quando si può guadagnare un po’ di visibilità mediatica e politica.  
Troppo spesso mi imbatto in battaglie che seppur “giustissime”, partono fuori tempo massimo, quando le decisioni sono già state prese e gli spazi di manovra politica sono inesistenti. Ecco perché anche lo sforzo del cittadino lobbista deve essere “professionale”, non può essere lasciato al caso.  

Come vedi il ruolo delle organizzazioni di lobby no-profit nel promuovere il cambiamento sociale e influenzare le politiche pubbliche? Quali sfide e opportunità comporta questo approccio?  

Proprio perché i partiti non accolgono e non rappresentano più quelle tante istanze sociali che tendono a moltiplicarsi in epoche di crisi come quella che viviamo, il mondo non profit e i movimenti grassroots potrebbero dare uno straordinario contributo per il cambiamento sociale. Il decisore pubblico non può non ascoltare l’industria dell’energia, compresi i produttori più riluttanti a lanciarsi nella transizione ecologica. Ma come può non ascoltare anche le comunità impattate dal cambiamento climatico? Come può non dar voce ai giovani, che subiranno le conseguenze più severe dell’attuale emergenza? come può non prendere in considerazione i migranti del clima, che saranno sempre più numerosi?  
Perché siano efficaci, le politiche pubbliche devono tenere conto di una molteplicità di punti di vista, devono conoscere l’impatto che determinate scelte potrebbero avere. Così come i lobbisti dell’industria possono fornire al decisore elementi tecnici indispensabili, i portatori di interessi generali possono contribuire a offrire al decisore informazioni altrettanto indispensabili che giustifichino l’urgenza di agire o di rivedere politiche dannose.  
Se, quindi, il non profit potrebbe aiutare a colmare quel deficit di rappresentanza che oggi viviamo, dovrebbe allontanarsi da una logica puramente testimoniale: non basta battersi per il “bene comune” per essere presi in considerazione. Bisogna avere argomenti per farlo. E spesso non sono sufficienti neppure solo gli argomenti e servirebbero risorse di cui le organizzazioni non sempre dispongono, schiacciate come sono dalla logica di “fornire servizi” supplendo alle carenze dello Stato e del mercato. Quante volte ci imbattiamo in soggetti del non profit che prevengono disturbi e malattie, che assistono i malati, ma che non si battono per politiche sanitarie in grado di restituire dignità e fondi adeguati alla sanità e ai suoi operatori?  

Si parla molto del PNRR e del suo impatto sull’economia del paese. Sappiamo tutti che si tratta di un’opportunià importante per il nostro paese. Voi avete ribadito in più occasioni, la necessità introdurre meccanismi per evitare che le ingenti risorse, finissero in mani sbagliate. Quali le vostre proposte?  

Sul Pnrr siamo stati impegnati fin da subito in due direzioni: da una parte, chiedendo più trasparenza e dall’altra, pretendendo un coinvolgimento di tutti gli stakeholder nelle scelte relative al Piano.  
Sulla trasparenza, ci siamo concentrati sulla messa online dei dati relativi a un Piano che anche secondo noi potrebbe avere un ruolo trasformativo per l’Italia. Grazie a una coalizione molto composita, Datibenecomune, abbiamo ottenuto qualche primo parziale successo, che ha portato alla pubblicazione sui portali ad hoc, in particolare su Italia Domani, di molte informazioni che permettano un monitoraggio diffuso del Piano. E non solo perché il monitoraggio è uno strumento indispensabile a prevenire e mettere in luce conflitti di interessi, incongruenze contabili e corruttele, ma anche perché se il Pnrr vuole avere l’ambizione di migliorare il futuro di tutti gli Italiani, allora noi tutti dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter conoscere quali scelte sono state fatte per trasformare il Paese e come stia procedendo il Piano. Non si tratta quindi soltanto di rilasciare quanti più dati disponibili, ma di farlo in modo chiaro, semplice, che sappia “parlare” a tutti. Da questo punto di vista, alcuni portali di monitoraggio regionali sono certamente migliori di quello nazionale. 
In materia di partecipazione, invece, abbiamo visto veramente pochi segnali di apertura. Proprio in questi giorni siamo impegnati, assieme all'Osservatorio civico per il monitoraggio del Pnrr, in una campagna indirizzata al ministro Fitto per chiedere che la nostra coalizione, che aggrega 54 organizzazioni molto diverse tra loro, alcune molto grandi come Legambiente e ActionAid, altre territoriali ma speclizzatissime, entri a far parte della cabina di regia sul Pnrr. Oggi ne fanno parte Confindustria, i sindacati, molte associazioni di categoria e vengono regolarmente convocate alle riunioni della cabina di regia alcune grandi aziende. Nonostante lettere, una petizione che ha superato le 7mila firme, un mailbombing con l’invio di oltre 5000 messaggi, il ministro Fitto continua a far finta di niente. Ma noi non demordiamo, perché crediamo che il nostro contributo al miglioramento del Piano possa essere rilevante e possa aiutare i decision maker a compiere scelte più attente e inclusive.  

Spesso alla parola lobby è associato un concetto negativo. La vostra organizzazione, già nel nome, prova a rappresentare un nuovo paradigma – quello della lobby buona. Quale per voi la discriminante tra le due dimensioni? Come si può renderla percepita come un’attività legittima?  

Ci tengo a precisare che non vogliamo identificarci come i buoni contro un mondo di cattivi. Il nome The Good Lobby, che è prima di tutto una provocazione, vuole soprattutto porre l’accento sul lobbying come attività “buona”, perché l’opera d’informazione dei policy maker portata avanti dai lobbisti può contribuire a decisioni qualitativamente migliori, più aggiornate ed equilibrate. Proprio perché il lobbying dovrebbe essere considerata un’attività perfettamente legittima e un requisito fondamentale di una democrazia complessa, soprattutto nell’epoca della disintermediazione politica, il compito della nostra organizzazione è quello di stimolare l’affermazione di lobby che promuovano gli interessi generali, oggi spesso sottorappresentati. Non si tratta, quindi, di escludere gli interessi particolari dai luoghi del potere, quanto semmai di controbilanciarne il peso e la rilevanza portando avanti il punto di vista anche di chi si batte per la parità di genere, per le minoranze etniche, per contrastare le disuguaglianze, o per tutelare le future generazioni. Il paradosso è che sebbene gli interessi privati godano di un minor grado di accettazione sociale e politica, si ritrovino poi molto più rappresentati di quelli generali.  
L’assenza di una regolamentazione sul lobbying non fa che acuire sbilanciamenti, asimmetrie e percezioni negative. Non illudiamoci, però, che la legge - per la quale ci battiamo da anni - sia sufficiente a cambiare lo stigma sociale attorno all’attività di rappresentanza di interessi.  
Ben vengano tutte le azioni volte a raccontare la professione del lobbista, il suo impegno, il suo ruolo. Credo che però sarebbe più importante far capire al grande pubblico in che modo - grazie all’attività di lobbying - si possa arrivare a politiche pubbliche migliori. Perché è quello che veramente interessa i cittadini: i processi, i mezzi, interessano gli specialisti; all’opinione pubblica interessano i fini. Noi un po’ lo stiamo facendo con la coalizione Lobbying4Change formata da 44 organizzazioni non profit: far vedere come il mancato coinvolgimento dei difensori dell’ambiente o dei diritti umani nei processi decisionali possa portare a politiche peggiori.  

Tutti i settori e le multinazionali, ovviamente, si sono attrezzati con risorse dedicate a questo ambito (Public affairs, lobby) perché ne hanno capito la rilevanza. Negli altri Paesi anche gli enti del terzo settore lo hanno fatto - in Italia un pò meno. È un problema culturale?

La dimensione culturale è senza dubbio rilevante ma non è l’unica a spiegare il ritardo del terzo settore nel dotarsi di competenze necessarie per informare e influenzare le decisioni pubbliche. Quello stigma sociale a cui facevo riferimento poco fa parlando di lobbying è particolarmente diffuso nel terzo settore, che sconta però anche un deficit di analisi del contesto politico. La dirigenza del terzo settore è spesso composta da persone di buona volontà e grandi ideali transitate per la politica che faticano ad accettare l’epoca della disintermediazione. Come se manifestassero una forma di nostalgia per un passato che non tornerà… Da questo punto di vista le nuove generazioni, seppur non meno animate di grandi ideali, sembrano più laiche e si rendono più conto di quanto sia necessario agire anche nella sfera politica.  
Se il nostro terzo settore è stato e continua a essere un imprescindibile erogatore di servizi e prestazioni non adeguatamente fornite dalle istituzioni pubbliche, politicamente è stato troppo subalterno ai partiti. Io trovo contraddittorio e poco strategico che un’organizzazione che prova a restituire dignità alle persone povere, non si batta poi in ogni modo e in ogni sede per contrastare politiche fiscali o economiche che rafforzano le diseguaglianze economiche. Alla fine, se non agisci a monte, sarai costretto a valle a subire le conseguenze di scelte sbagliate. Questa logica perversa è spesso indotta anche dalla filantropia che, nel nostro Paese, non stimola il terzo settore ad agire a monte, non concedendo fondi per iniziative di advocacy o di lobbying. Ma senza fondi adeguati, il terzo settore non riesce neppure a professionalizzarsi e ad avere perciò una voce in capitolo in grado di bilanciare quella delle lobby private.  

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